venerdì 23 novembre 2012

Risate proibite

~ UN PECCATO DEL NOSTRO TEMPO ~

I paesi di cultura cattolica hanno perso il gusto di ridere. Un’altra trasformazione antropologica. Rigidi, gravi, arcigni e timidi come liceali di un tempo annuiscono – uomini e donne, giovani compresi – a ogni presunta novità con la diligenza di tedeschi luterani, senza più ricorrere alla loro antica arma: un beffardo cachinno per sanzionare le offese al buonsenso.

Un buffone di corte si mette in proprio e in milioni accorrono a dargli credito, non per spirito gregario del carnevale – che già sarebbe comprensibile e allegro – ma fingendo addirittura il ricorso all’etica. Una mascherata di indignati.

Né si ride sonoramente di chi armeggia ancora intorno al termine ‘progressista’, parola che dovrebbe suscitare al solo pronunciarla una ilarità irrefrenabile.

Manca il sacrosanto «riso della donna tracia» di fronte ai pensieri che si autoproclamano debolucci e alle persone senza qualità che si autoproclamano artisti. Queste investiture sono burle boccaccesche per far soldi, atte a suscitare la riverenza dei più ignoranti e dei più trucidi.

Addirittura proibito è il riso per coloro che vogliono convolare a giuste nozze con lo stesso sesso, come già si pretendeva al tempo della Roma imperiale, provocando però i lazzi di Giovenale. E non si dovrebbe certo irridere la passione, che può essere perversa quanto si vuole, così come è pieno di anfratti il cuore umano, ma la richiesta che lo Stato metta il naso negli affari di letto onde ricavare pensioni e diritti che una volta si sarebbe bollati con l’epiteto di «piccolo-borghesi».

E come non ridere per i vecchi rivoluzionari che aizzano figli e nipoti alla conquista del posto fisso, trovando lo stato precario, la fluidità dell’esistenza, la potenzialità infinita, un modo atroce di condurre l’esistenza? Si tirano le pietre contro i poliziotti per infilarsi nell’ergastolo del lavoro sempre uguale, con il «fine pena mai» ottenuto attraverso lotte sindacali, a vita, salvo quando interviene la grazia della pensione nell’età decrepita.

Flaubert – lo ricordava Citati sul «Corriere» l’altro giorno – scriveva a un amico: «la giustizia umana è per me quello che c’è di più buffonesco al mondo, un uomo che ne giudica un altro è uno spettacolo che mi farebbe crepare dal ridere, se non mi facesse pietà…». Impietosi e tristi, molti nostri contemporanei, comici e politicanti, scrittori e lettori, si inebriano della giustizia umana, celebrano i magistrati come nuovi sacerdoti, hanno fede nei giudici che mettono a posto le cose.

Delle faccende grottesche del mondo Flaubert farà compilare ai suoi due copisti un dizionario che sferza gli sforzi degli intellettuali e la prosopopea della ‘cultura’, provocando le vertigini per il numero di voci cui potrebbe dar vita. Il grandguignolesco Léon Bloy tentò il seguito con la sua Esegesi dei luoghi comuni su cui i nostri Giuliotti e Papini si esercitarono in una specie di appendice vernacolare, il Dizionario dell’omo selvatico. Adesso simili dizionari enciclopedici, che provano a raccogliere l’umana idiozia, incontenibile come la divina sapienza, non producono nemmeno un sorriso bensì timore e tremore per il rischio di oltrepassare il lecito comportamento previsto dal bigottismo politico.