martedì 11 dicembre 2012

Sorella Falciatrice

~ PICCOLE VOLGARITÀ
IN UN CONCORSO MINISTERIALE ~

L’acculturazione forzata («obbligatoria») delle masse produce tra gli altri danni la diminuzione degli artigiani, di coloro che conoscono l’arte di usare le mani, a vantaggio di milioni di laureati, e in discipline che mal si conciliano con la massificazione, specialisti in chiacchiere mediocri che, per forza di cose, finiscono con il nutrire e ampliare a dismisura la burocrazia. Quanti lavori si inventano per far contenti i dottorini senz’arte, quanti uffici e consulenze generati da fantasie barocche e di cui la ragione umana non si capacita neppure. A governo supremo di simili elucubrazioni ‘per mangiare’, c’è un ministero denominato, a seconda del narcisismo dei politici regnanti, della Cultura o dei Beni e Attività Culturali, come si chiama adesso in un trionfo di maiuscole. E parte da questo ministero un concorso, bandito insieme alla «Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Lazio, la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio» (per ogni ridicola maiuscola chissà quanti impiegati e consulenti e fondi e uffici e pause caffè e viziosi ghiribizzi finalizzati a partorire eventi), onde ricordare Francesco d’Assisi. Un «concorso artistico» riservato agli studenti d’arte che invita i ragazzi a cimentarsi con Giotto per mettere in scena – «con ogni mezzo espressivo», naturalmente, in primis le installazioni – la figura del frate medioevale. Una lodevole iniziativa per esaltare la santità dell’imitatore di Cristo? No, una sciocchezza. Il ministero, indirettamente il ministro già rettore dell’Università cattolica, chiede agli studenti d’arte di celebrare la gloria di Francesco come «primo pacifista ed ecologista, attuatore di un’esperienza di vita basata sui principi di estrema semplicità e sostenibilità, il primo trekker moderno». Testuale. Una siffatta banalità non nasce nelle chiacchiere di ragazzotti sul tram ma in un ufficio apposito dove si affinerebbe il miglior spirito italico.

Si sbagliavano, dunque, santi e papi nel corso dei secoli, non si trattava di uno che voleva incarnare il Vangelo radicalmente ma di un ‘pacifista’, un politicante senza princìpi intimorito dalla violenza; si sbagliava Dante, che faceva intervenire Tommaso d’Aquino a prescrivere per tutto quanto riguarda questo santo speciale - se qualcuno «proprio dir vole» - che si ricorra a termini preziosi. Il sommo domenicano, da parte sua, nel canto XI del Paradiso dantesco, canto che un tempo si mandava a memoria nei licei della penisola, lo chiama «patriarca», «santo archimandrita», l’amante della Povertà cristiana atteso da «millecent’anni e più», «la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe». Non sapevano quei poveri ingegni, quasi contemporanei suoi, che l’esperienza francescana si basava sulla sostenibilità ambientale, sul business dell’ecologia, magari anche nella versione ante litteram di paladino del global warming piuttosto che di araldo della croce. Non sapeva il poeta che il Serafico era semplicemente uno che faceva trekking, un escursionista, uno che pensava «modernamente» al benessere corporale dunque, magari con adeguato equipaggiamento (peccato che lordasse ogni cosa con quel sangue colante da mani, piedi e petto, un trekker che lasciava dietro di sé una rossa scia). Così, la natura per il Poverello era – secondo i burocrati compilatori del concorso – una disneyana armonia, leggermente diversa dalla fondamentale concezione cattolica che vede nel creato il suggello di Dio, ragion per cui anche «sorella morte corporale» è da lodare. I promotori del concorso su un Francesco un po’ zen capiranno forse il paradosso francescano solo quando a contatto con la terribile Falciatrice proveranno a chiamarla sorella, a considerarla pia, e vedranno che non è facile senza il Vangelo, certamente più arduo di un’arrampicata in montagna.