domenica 16 dicembre 2012

Florilegio

~ GLI SCRITTI DI DON DE LUCA ~
~ ULTIMA PUNTATA ~

E per finire il ricordo di Giuseppe De Luca in cinque puntate, un florilegio di frasi e di raccontini: la passeggiata al Gianicolo che sfiora la felicità, facendo venire in mente una pagina di Stendhal che in quel medesimo luogo scoprì la luce romana che quietava il tempo; l’insistenza sul punto essenziale che la salvezza non viene dalle soluzioni della questione sociale, come si ingannavano invece molti preti del suo tempo; le poche righe in cui riassume la letteratura e le arti di fronte alla modernità; e le singole battute che restano impresse. Abbiamo rubato, anche nelle puntate precedenti, tante citazioni al libro della Morcelliana ma siamo sicuri che la casa editrice non se ne adonterà. Capisce bene che questo antipasto di un volume peraltro fuori catalogo fa venire voglia casomai di leggerlo tutto e stimola curiosità per la figura del prete lucano che, a cinquant’anni dalla morte, è così presente tra noi.

«Meglio sempre parlare che scrivere; se non che, via via che ci s’invecchia, anche a voler discorrere, non si trova più con chi farlo. Non ti dà retta nessuno».

«Una volta, la poesia portò il nome di ‘gaia scienza’, nome inventato per essa. Altro che gaiezza, oggi! oggi i tossici della disperazione più nefasta, più nefanda, li si vende in quei barattoli che si chiamano volgarmente romanzi, novelle, poesie».

«Fa caldo. Il medico mi ha detto che mi ci vuole del moto. Debbo fare del moto; non ci credo, son certo anzi che non mi serve a nulla; faccio tuttavia del moto. Non è che disistimi il medico, no; disistimo, piuttosto, la medicina. Meglio, non ci credo. Credo in Dio, Padre onnipotente, ecc. ecc., tutto il credo; ma a credere nel resto, ci vado piuttosto cauto, cum juicio. Non credo che il sole faccia bene, che il mare giovi a nulla, che la montagna aiuti, e così via. Sarà, io non ci credo. Per me, sono ubbie. Come girano gli astri, così girano le pazzie degli uomini., che hanno anch’esse un loro corso, un loro zenit, un loro nadir. Debbo fare del moto. E lo faccio. Mi sono accorto che, a mia piena disposizione, è per esempio il tratto che va dal Fontanone del Gianicolo sino al Faro. Un piacere da sovrano. C’è chi spazza i prati, chi bagna i viali. Ci sono le guardie, ci sono i bambini, ci sono gli innamorati, ci sono dei busti di gente per bene. Ahimè, come son brutti, quei busti! e pensare che i busti di ignoti al Museo Capitolino hanno l’altezza, la potenza, il volto nell’aria dei monumenti equestri più celebri. Sembra un quadro animatissimo e un po’ frenetico del Breughel. Ci sono le variazioni inesauste dei verdi innumerevoli, le gradazioni morbidissime delle ombre e delle luci, le fisionomie staccate e dolci dei singoli alberi, tanto più affabili delle fisionomie nostre di uomini, macchiate tutte e intaccate dalla lebbra lieve ma visibile del peccato comune. Quando ci si incontra, noi uomini, non ci si vuole nessun bene; certamente, non ci si fa nessuna festa. C’è un’aria dolce, che ha qualche mutamento in sé e a volte scompiglia la tonaca e la sopportazione. C’è un cielo, un cielo, che in ogni momento è uno spettacolo nuovo; cambia di scena, di personaggi, di voci. E c’è, tutta per me, come Dio e come il cielo, come la Grazia, la poesia, c’è, soltanto ad affacciarsi, e per affacciarsi basta volgere un poco il capo, c’è Roma».

«Annientarci, per lo meno di rossore, soprattutto quando, di fronte alla nostra improntitudine, potesse sorgere, non dico il pianto della Chiesa, ma il turbamento anche di un’anima sola. La Chiesa è la Chiesa, non piange per così poco; purtuttavia sant’Ignazio si faceva scrupolo, quando si parlasse della Chiesa, persino di pronunziare la parola ‘riforma’, pur nel migliore dei sensi, col migliore dei sentimenti. E sant’Ignazio ci è stato ed è, coi suoi figli, più intrepidi e perciò più trepidi, un maestro del ‘sentir con la Chiesa’, un maestro dell’amare come dev’essere amato colui che tien le veci tra noi del Signore».

«La gente di poco comprendonio spirituale fa consistere tutti i peccati in quello contra sextum».

«L’economia è una bella cosa, una cosa grandissima nella nostra vita; si ebbe un torto pazzo a non accorgersene tanto prima, ma è e non può essere tutto. Non dico una passione d’amore, non dico un momento di poesia; ancor meno voglio nominare Iddio, la sua grazia, la sua gloria. Non dico un piacere, un dolore, la morte. Dico il sorriso subitaneo di un bambino, il rannuvolarsi doloroso d’un volto d’uomo, una voce smarrita in una sera deserta. Son tutte cose, codeste povere cose, le quali colpiscono più a fondo il cuore dell’uomo che non tutta la sua stessa fame. Aver ridotto per intero (ripeto, per intero) la nostra vita a una faccenda essenzialmente economica, è proprio la risultante che ci meritavamo, di un’epoca intesa soprattutto all’industria e ai commerci. La rivoluzione contro il capitale è la ribellione di una figlia al padre».

«Roma come paradiso terrestre delle anime».

«Non la Chiesa e la fede cristiana se ne andava, se ne andava la civiltà. Una barbarie apocalittica si ammassava alle porte, progrediva lenta ma certa come un’ardente lava. Gli scrittori più vivi sembravano altrettanti centauri impazziti erravano ora muti ora urlanti per la foresta: foresta, so bene, di cattedrali, di palazzi regali e patrizi, di torri campanarie o del comune, di biblioteche, di città intere che sono tutte un museo, di paesi che sono altrettanti gioielli: foresta, dico, invasa da sciami d’insetti, vale a dire dalle torme e masse vive di ideucce balorde e brillanti, disperate e spiritose, che negavano tutto, sporcavano tutto, ferivano tutti, abbrutivano ogni momento dell’uomo, facendone a sua volta un sudicio insetto, un verme lugubre, una bestia insomma, bestiola o bestione che fosse. Quegli immani e inumani centauri che riempivano della loro voce l’Ottocento, non si tacquero un istante, e la loro voce ancora oggi è a volta a volta un incanto o uno sgomento».

«L’autorità politica di regola vien sostenuta in teoria da chi non riesce in pratica ad esercitarla, e nemmeno ad ottenerla; viene invece negata in teoria da chi, in qualsiasi modo, riesce sempre a impadronirsene, e la esercita, e come la esercita!».