venerdì 20 dicembre 2013

I riti cinesi

 ~ LA «NUOVA MISSIONE» NEL SEICENTO ~ 
~ E NEL TEMPO ATTUALE ~ 

Tutto era diverso, salvo il tono della polemica, con accuse furenti da una parte e dall’altra. Nel fuoco della battaglia la Compagnia di Gesù, intenta alla «nuova missione» in Cina. I soldati di Ignazio mettevano da parte la evangelizzazione in virga ferrea e procedevano alla conquista delle anime. Non portavano laggiù la Chiesa dallo sfarzo barocco, gli echi delle glorie religiose e militari (Lepanto aveva segnato un’epoca), della precisione dottrinale (che noi chiamiamo controriformistica). Appena un po’ d’arte, quella trasportabile in bagagli leggeri, e le mirabilia coltivate da padre Athanasius Kircher nella sua Wunderkammer del Collegio Romano. In punta di piedi, umili (a parte l’erudizione da sfoggiare sobriamente), con grande incantamento per gli indigeni da convertire, sorpresi anche dal grado altissimo di una civiltà finora estranea al nostro mondo, come se nel tempo d’oggi si scoprisse su Marte un impero eccelso per ordinamento, pensiero, costumi e tecnologia. La controversia era già moderna: come tradurre il discorso evangelico in lingue aliene al mondo chiuso del Mediterraneo dove il cristianesimo sorse? Come tradurre – ripeterà la cultura moderna, compreso un Concilio convocato appositamente nel Novecento – il messaggio antico nel linguaggio di popoli così distanti temporalmente dall’epoca che vide il passaggio di Cristo su questa terra? E come adattare la liturgia sistemata da un papa romano del VI secolo ai popoli orientali o alle genti del terzo millennio? I missionari gesuiti posero la domanda e proposero la risposta con la massima indulgenza, sfumando sia l’identità cattolica sia quella del mondo orientale. Permisero manomissioni liturgiche, presero in prestito gesti e abiti dai culti locali, elaborarono cerimonie sacre a misura dei neofiti in tutto l’Oriente, i cosiddetti riti cinesi, i riti giapponesi, i riti malabarici (in India), ammisero la venerazione di Confucio, giurando trattarsi di un atto laico, di celebrazioni culturali, disobbedirono a Roma convinti di aver scoperto una universalità cristiana ancora più grande di quella predicata in Occidente. Probabilmente scattava anche la curiosaggine degli intellettuali che spesso li porta alla fascinazione per una novità. Tanto fu il riguardo per gli usi del popolo cinese, che le stesse questioni morali sembravano perdere la loro solidità nel mitico regno del Catai.

La guerra ai gesuiti missionari scoppiò nel Seicento. C’era sullo sfondo la saldezza dottrinaria raggiunta nel Concilio di Trento, c’era la fede millenaria scossa dalla Riforma protestante ma ricomposta dalla Controriforma, c’era lo spirito d’obbedienza e il principio d’autorità, il senso della gerarchia, le regole della Societas stessa che imponeva all’orgoglio umanista di trasformarsi «perinde ac cadaver»; la modernità faceva appena la sua prima comparsa, neonata, quindi, accattivante e promettente, con un volto assai meno spietato di quello che abbiamo poi conosciuto. La questione al centro di questa guerra in seno alla Catholica anticipava il motivo attuale, l’ansia postconciliare su come avvicinare la Chiesa cattolica al mondo secolarizzato, il cristianesimo della tradizione e la modernità che in modo virulento taglia i ponti con il passato. Si trattava dei prodromi, diverso il contesto. Tra le varie cose inimmaginabili ai tempi della diatriba ce ne è anche una avvenuta dianzi, che modifica ulteriormente il quadro della Chiesa di Roma: nessuno si sognava di vedere eletto papa un gesuita, avendo la Societas il suo «papa nero», ossia il Generale della Compagnia (grado militare del corpo speciale posto al servizio del pontefice), potente come un papa, abbigliato in nero come un semplice prete. 

L’uomo è «naturaliter christianus», sosteneva agli albori Tertulliano. I gesuiti in Cina ripresero questa ipotesi, la rafforzarono con una rappresentazione della civiltà cinese quasi fosse un mondo paradisiaco che aveva i contenuti evangelici nella sua trama. Ergo, Sina est naturaliter christiana. Offre l’assist Tertulliano anche agli evangelizzatori dei nostri giorni.

Parliamo di una «nuova missione», dell’esperimento audace, del teatro cinese – secondo gli accusatori, in primis giansenisti – che mettono in scena i reverendi padri gesuiti in un impero sconosciuto e lontano, al riparo dagli sguardi sospettosi del vecchio mondo. È infatti loro il monopolio dell’informazione cinese nei confronti dell’Occidente, loro sono i soli conoscitori della lingua, a loro appartengono le prime grammatiche che stampano in Europa forgiando nel piombo gli ideogrammi, loro sono gli interlocutori dei mandarini, di scienziati e letterati della sofisticatissima civiltà orientale che, pur senza traccia del Vangelo, appare mirabile e autentica concorrente dei regni cristiani, loro i cortigiani, talvolta anche gli amici, dell’Imperatore, del mitico sovrano con i caratteri divini. Le relazioni di viaggio, le traduzione di libri, sacri e non, le lettere, le opere che i confratelli al Collegio Romano compilano collazionando le carte dei missionari, formano una letteratura eccitante nel XVII e XVIII secolo. Le menti curiose consideravano quei documenti molto più avvincenti dei romanzi. Nel racconto dei gesuiti, i pagani cinesi assumevano i tratti cristiani. 

Confucianesimo e buddismo vengono assimilati alle filosofie, armonizzati con il cattolicesimo. Anzi, Confucio diviene un san Paolo cinese, un apostolo delle genti orientali. La Cina è una specie di immenso specchio dell’Occidente. La differenza cristiana si affievolisce. I missionari gesuiti son così convinti del genio del cristianesimo che non possono incontrare un mondo raffinatissimo come quello dell’Impero celeste senza immaginarlo in qualche modo cristiano. Del resto, il Doctor Eximius, padre Francisco Suárez S.J., sosteneva che l’atto di fede è relativo alla differenza di tempi e d’ambiente. L’indulgenza ottenuta dai pagani ‘classici’ poteva esser estesa a queste elegantissime genti orientali. Si concedevano anche qualche contraffazione storica per inventarsi un cristianesimo nascosto per millenni nel popolo cinese. Veniva in aiuto il geniale padre Kircher, decifratore a modo suo dei geroglifici egizi e dei misteri cinesi. Profuso negli studi sinologici, il Turingiano rinveniva dei cristiani nestoriani che si sarebbero spinti fin laggiù, a seminare chicchi evangelici. Ecco spiegate le virtù della civiltà cinese. Ma c’era chi ricostruiva viaggi apostolici in quelle terre, conferendo peraltro alla lingua cinese un primato che contraddiceva il racconto biblico, esaltando anche la morale di chi agli occhi di Roma era solo un pagano da salvare. E in terra di missione risultavano maestri di gentilezza, di cerimoniosità, di cortigianeria, conquistavano il cuore mondano, AMDG, naturalmente, in conformità con il motto della Societas. Sia detto tra parentesi, in allusione alle questioni del tempo nostro, non è proprio aggiustabile il rapporto tra Compagnia di Gesù e francescanesimo (il santo di Assisi evangelizza in altro modo: si presenta davanti al sultano e gli ordina di cambiar vita). Non è un caso che i cappuccini furono i più duri avversari delle missioni della Societas. La radicalità evangelica, la scabra parola biblica, la profezia che urla nel deserto son cose estranee a quei dialoganti con i saggi confuciani. Per la particolare mondanità della Compagnia non si predica l’ascetismo dei frati agli aristocratici interlocutori (lo si pratica in privato, riservato ai reverendi padri nel segreto delle loro stanze). 

La guerra dell’Occidente all’Impero cinese per assicurare la libertà d’azione dei missionari non convinceva i gesuiti. Qualcuno di loro parlava esplicitamente di «guerra ingiusta» (Josè de Acosta, per esempio). 

Il duca Louis de Rouvroy de Saint-Simon (appena una lontana parentela con l’utopista dell’èra industriale) scrive nel capitolo 51 dei suoi Mémoires: «Le polemiche dalla Cina cominciano a far scalpore, si parla delle cerimonie di Confucio e degli antenati, ecc., che i gesuiti concedono ai loro neofiti e che le Missioni straniere proibiscono ai loro: i primi sostengono che esse abbiano un carattere puramente civile, gli altri che siano superstiziose e idolatriche». Un riassuntino in punta di pettegolezzo, l’accenno al duello tra i gesuiti e i parigini delle Missioni estere, che tralascia i risvolti teologici. 

Se i gesuiti concedevano ai cinesi convertiti di perseverare nella venerazione di Confucio e degli antenati, se i riti cinesi non si limitavano al rispetto delle tradizioni locali ma investivano la liturgia cattolica, il nome di Dio che i colti missionari traducevano nel lessico del confucianesimo, l’immagine di Cristo che, per non spiacere al delicato gusto dei mandarini, ripulivano del sangue della Passione e perfino della morte per crocefissione, esaltando invece il corpo celeste della Resurrezione, se adattavano cioè il cattolicesimo romano all’ottica degli ‘infedeli’, è perché stavano mettendo a punto quella «inculturazione» che è croce e delizia dei tempi nostri ma che già i primi cristiani, senza troppo indulgere alle questioni di metodo, avevano di fatto praticato. Che altro fu infatti quella metamorfosi del Verbo ebraico nelle forme degli dèi latini, i templi e perfino le statue che cambiano di segno, i cortei pagani trasformati in processioni cristiane, il Natale che sostituisce il culto solare, tollerando che i romani si voltino ancora in devoto omaggio verso l’astro prima d’entrare nella basilica di san Pietro (papa Leone dixit), che altro se non inculturazione si poteva denominare quell’impero pagano che diviene sovranità del vescovo di Roma sull’Urbe e sull’orbe, il vicario di Cristo addirittura impadronendosi della carica imperiale di sommo pontefice? Concesse Gregorio Magno («Solo conservando per gli uomini alcune delle gioie del mondo, li condurrete più facilmente ad apprezzare le gioie dello spirito»), concessero tantissimo i papi dei primi secoli e quelli degli ultimi. Sennonché suona bizzarro che i fautori della inculturazione a ogni costo, i rispettosi di tutte le culture locali e di tutti i popoli, siano poi impietosi verso la cultura della Roma antica in cui si modellò la religione cattolica, dannandola perciò con la parola costantinismo. Tutti i compromessi siano benedetti – dicono coloro che pur definendosi cattolici avversano la storia cattolica – eccetto quello del vescovo di Roma con l’imperatore. Soltanto nel territorio dei Laterani, sui terreni concessi dall’Impero in decomposizione, nel regno spirituale della imperatrice Elena che trasportava con somma pietas le reliquie orientali sulle rive del Tevere, quel compromesso non s’aveva da fare e il mondo, secondo i precetti evangelici, andava disprezzato. E perché invece il mondo cinese, come oggi quelli alla periferia o quello ‘laico’, scilicet ateo, va tenuto in gran conto e ammirato e amato?

Essere arricchiti dagli altri, predicano oggi, essere arricchiti dai cinesi, dalla cultura cinese, predicavano i missionari gesuiti, scrivendo di questa ricchezza nelle loro relazioni di viaggio e nelle lettere ai confratelli del Collegio Romano. Tanto si venera la tradizione altrui quanto si disprezza la propria (non era ancora il caso dei gesuiti, più intricato il loro rapporto). Si va a prendere a destra e a manca, dai confuciani e dagli atei, dagli islamici e dagli gnostici, quasi non ci fosse nulla da inorgoglirsi nell’essere cattolici. Non è una ricchezza, non è la maggiore ricchezza al mondo, che ripaga della miseria materiale, essere i fedeli di Pietro e di Paolo, aver seguìto gli apostoli, far parte di coloro a cui è stato promesso il Regno? Non è una ricchezza straordinaria assistere ai sacri misteri, partecipare al sacrificio del Dio fatto uomo, consumando la vittima, mangiandola? E avere la deipara come regina, i santi come intercessori, i papi come guida? Non è il più grande privilegio poter diffondere il messaggio di salvezza dalla morte a coloro che ancora non lo hanno conosciuto o capito? E possedere una lingua che non solo unisce le chiese di tutto il pianeta, perfino oggi, nei frammenti che restano incastonati di quando in quando nella liturgia, ma che unisce il nostro tempo a quello dei primi apostoli e a quello dell’impero romano che contrassegnò l’antichità (l’unica via per raggiungere l’antico, diceva Hofmannsthal della lingua cattolica), ordunque il latino sarà ancora un sommo bene culturale? A vedere gli heideggeriani che consacrano la lingua tedesca e che considerano termini intraducibili i fantasiosi composti teutonici, riportandoli come un feticcio anche nella pubblicistica divulgativa, vien da chiedersi perché la parola divina debba essere adattata alle forme più indecorose, perché ci si debba accontentare dei significati più miseri offerti dalle lingue volgari. Il patrimonio è questo. Che saranno allora Confucio o Budda, Maometto o Lutero? E ci darà maggior ricchezza, qualche tallero d’argento in più, quell’infelice Kierkegaard o il moralista ossessivo Nietzsche? 

Chi vuole adeguare la Chiesa al nuovo secolo e addirittura al nuovo millennio, farle parlare il linguaggio di tutti, renderla schiava del presente, del soffocante presente – quando ci sarebbe tanto bisogno di una voce inattuale nello stridio di voci e immagini, di simboli, di orticelli consacrati e di templi sconsacrati, di inferni, di corse precipitose verso un telos che è il nulla –, costui ha fatto tesoro della lezione dei gesuiti in Cina ma non prende atto che il telos di padre Matteo Ricci era il Cielo, non il benessere in terra. La Cina non rappresentava per i missionari il destino (casomai il martirio coronava la missione), il mondo ‘laico’ per i neo-evangelizzatori è il destino. Dimentica pure, chiunque voglia sovrapporre direttamente l’evangelizzazione in Cina e quella in partibus nostrae aetatis, che tutte queste voci e immagini assedianti sono un déja vu persecutorio che noi chiamiamo post-moderno e che solo il Verbo eterno può spezzare. La disperazione contemporanea invoca perciò parole sottratte all’uso corrente, alla mercificazione universale, all’oppressione del tempo e considera un insopportabile martirio il vicario di Cristo che parla come un presentatore televisivo. La consolazione delle anime in pena non può avvenire mediante pensieri e parole secolarizzati. Alle persone stanche, abbrutite dalle frasi fatte, dai gesti scontati, manca la promessa di eternità, la possibilità di fuoruscita dal tempo. Ecco una differenza con la Cina di padre Matteo Ricci. Allora non si parlava di età della crisi, le cesure della storia erano miracoli, nei momenti più difficili si intravedeva casomai, anche senza la forza di dirselo, le figure livide del finale apocalittico. Né la decadenza d’Europa era già cominciata. Dominava la storia questo piccolissimo continente, quando i gesuiti presero a guardare altrove. Oggi è l’impero ‘laico’ a conquistare il mondo, la tirannia della comunicazione si impone ovunque. 

Vediamo meglio quel teatro cinese allestito dai gesuiti (e si rimanda anche a un articolo di questo «Almanacco» sulla missione di Ricci <http://almanaccoromano.blogspot.it/search?q=matteo+ricci>), vediamo se si tratta della medesima rappresentazione che il Vaticano II ha imposto e moltiplicato nei cinque mondi, o se una impercettibile differenza cambia le carte in tavola. Romano Amerio dedicò in Iota unum troppo scarne righe alla missione dei gesuiti, pur attento a non confondere la Compagnia del periodo d’oro con l’«odierno scadimento». «I Gesuiti – scrisse – infusero nella Chiesa una potente vitalità, proponendosi di organizzare tutto il genere umano e dirigere tutta la terra al cielo, anzi sottomettere, con tale intento, tutte le parti dell’enciclopedia e tutti i rami della convivenza sociale. […] Nel ricercare l’armonia dialettica tra i due mondi, che è sempre difficile, i Gesuiti inclinarono talora a rendere la religione più amica dell’umana natura (inquanto questa è buona e da Dio) che non a contrapporgliela (inquanto questa è corrotta e renitente)». La questione resta assai spigolosa, questa «amicizia» dell’umana natura contrastando con l’avversione evangelica per il mondo e per la natura umana depravata. 

Era il ritornello delle Provinciali che un Pascal in incognito, teologo dilettante e prosatore eccelso, faceva risuonare: l’innata bontà predicata da Confucio e riecheggiata dai gesuiti era irriducibile alla dottrina del peccato originale. Solo la religione cattolica, i suoi sacramenti, il suo magistero, riscattavano quella natura. L’antico dogma, «nulla salus extra Ecclesiam», ribadito dal catechismo tridentino («quanti vogliono conseguire la salute eterna devono aderire alla Chiesa, non diversamente da coloro che, per non perire nel diluvio, entrarono nell’arca»), in effetti non poteva accordarsi con il metodo dei gesuiti in Cina. Gli uomini della Compagnia facevano salire tutti sull’arca, ingresso gratuito. Antoine Arnauld, il Grand Arnauld come lo chiamavano i sostenitori della battaglia giansenista, il fratello di Agnès, badesse de Port-Royal, denunciava che «la Société a changé la face de la Chrestienté». Il compromesso cinese per lui era una eresia. Così accennava a quello strano teatro dei gesuiti: «in Cina si vestono come dei bonzi e così canonizzano nelle loro persone l’idolatria dei loro parrocchiani». Per rendere la Catholica «più amica della umana natura» si rischiava l’accusa di idolatria, si contornava il cratere dell’eresia? Ci si metteva comunque nei panni degli altri: non solo teatro gesuita ma arte tutta occidentale, esclusiva dell’Europa, come l’Illuminismo che ne discende, e che non poteva che nascere dalla civiltà cristiana, da quella singolare costruzione che è il costantinismo, tanto famigerato nel post-concilio novecentesco. (Nel tentativo di deviare la storia, i padri della Compagnia provarono a lanciare una nuova dinastia regale esplicitamente cristiana, attraverso una concubina rimasta incinta dell’Imperatore e convertita al cristianesimo La donna fu battezzata con il nome di Elena. Il figlio con quello di Costantino.) Pertanto i gesuiti, in questa rappresentazione cinese dove vestivano panni orientali, arrivarono a rovesciare completamente il punto di vista, a produrre la più radicale autocritica: i barbari siamo noi. Un certo qual relativismo aleggiava in tale geografia culturale, dove la barbarie girava sul globo a seconda della specola del soggetto. La verità, come sempre in questi eclatanti e cangianti spettacoli, finiva in ombra. Qualcuno si chiedeva già allora se la stessa Rivelazione, la promessa del Regno, non fosse ormai inutile nel più bello dei regni possibili, realizzato con la benedizione dei padri gesuiti.

La polemica giansenista batteva su questo punto. Le massime del Vangelo son dure da praticare, i padri della Compagnia le adattano con troppa facilità. Pronti a nascondere la croce per rendere più lieta la novella. Le missioni finora avevano visto i missionari accompagnarsi alle truppe degli Stati europei, la superiorità militare europea doveva mostrare la superiorità della sua religione, incutere rispetto, anzi soggezione. Certo, a noi adesso pare una via contorta quella che conduce a Cristo attraverso la guerra, ma confermare la verità cristiana con la potenza delle armi era la prassi di quel secolo. Con i gesuiti in Cina la penna prese il posto della spada. Ci si presentava come sapienti e si faceva entrismo a corte per poi raccontare ai nobili e ai mandarini che l’Occidente ha una spiegazione del mondo e della vita, che riempie i cuori di gioia: la morte è vinta. La tecnologia che si è sviluppata in Europa, e di cui gli orologi e gli altri capolavori meccanici che i gesuiti avevano portato in missione erano esempi attraenti, attestavano la raffinatezza culturale della civiltà cristiana. Juan Gonzalez de Mendoza, autore della prima Storia della Cina, non era un gesuita bensì un agostiniano, ma evidentemente, per il disorientamento indotto dalla collocazione nell’altra parte del mondo, anche lui si lasciò prendere dalle analogie. Vedeva nelle immagini cinesi una figura «di strana e meravigliosa forma, cui portano grandissima reverenza, un corpo dalle cui spalle escono tre teste […] il che dicono significare che hanno una sola intenzione… », alludendo naturalmente alla Trinità. Oppure: «sogliono dipingere una donna molto bella con un bambino in braccio e dicono che essa lo partorì e rimase vergine… ». Sbiadiva in tal modo il legame con il popolo ebraico, i passaggi-chiave della nostra tradizione, per lasciarsi prendere dalle più esotiche meraviglie del Levante. Pascal ripeteva tetragono che a lui di Confucio non importava granché e che rimaneva fedele a Mosé. Non c’è forse una affinità con quanto accade nei nostri tempi quando, pur senza andare troppo lontano, si limitano a intronizzare icone bizantine nelle chiese barocche, quasi ci fosse bisogno di quel cristianesimo misterioso, vago, sottinteso, non bastando le immagini piene della pittura italiana? Oppure con le conferenze degli gnostici, i libri cifrati che a sentir loro mostrerebbero un generico cristianesimo, esoterico come si conviene alla cultura elevata, con più malia di quello con dottrina e sacrifici prescritti dai catechismi? Al posto della Rivelazione, cominciava ad affermare qualche gesuita secoli prima di Heidegger, ci poteva essere il Disvelamento. 

Dall’altra parte del mondo, replicava Pascal, scettico sui racconti dei gesuiti, sia su quelli che facevano nelle loro Relazioni per mitizzare la Cina sia su quelli che ammannivano ai mandarini a proposito del cristianesimo facile: «io credo solo nelle storie i cui testimoni sono pronti a farsi sgozzare». La Compagnia era passata invece dal gioco al massacro al gioco di seduzione. Erano amabili con il mondo, i padri della Compagnia, però assai severi con sé stessi, pronti al martirio, umanisti cristiani che firmavano con il sangue i loro messaggi. 

Rendere «la religione più amica dell’umana natura» è, secondo Amerio, lo sforzo audace della Societas Jesu. Con tale intento, si costruiva una audace teologia che il padre Coton, confessore del re Enrico IV, riassumeva con spirito mondano (oggi si direbbe giornalistico): «Ecco in due parole la teologia che propongo: quel che noi chiamiamo bontà, onestà, civiltà autentica, grandezza di spirito e coraggio, con tutte le altre virtù naturali che troviamo nei pagani e nei peccatori, sono gli effetti della passione del Salvatore» (Intérieure occupation d’une âme dévote). La misericordia si allarga all’intera umanità, la bellezza del mondo, anche di quello pagano, anche di quello dei peccatori incalliti, è il risultato dell’Incarnazione divina. In una lettera di denuncia dell’operato della Compagnia indirizzata a papa Innocenzo XII, i rappresentanti delle Missioni estere di Parigi (la grande concorrente della Compagnia nel proselitismo cinese) potevano concludere: «i gesuiti sono troppo buoni: vorrebbero salvare tutti e non iscomodar alcuno, ma non si possono queste due cose conciliare. Sonovi delle occasioni nelle quali si dee scegliere una di queste due, e adoperare la massima: chi vuol salvare una vita la perderà; e chi avrà cuore di perderla la salverà». 

La Chiesa di Roma ha avuto in ogni epoca i suoi tormenti. Non si deve immaginare una lunga età dell’oro alle spalle, senza persecuzioni, senza travagli interni, senza peccato. Però l’evo moderno è più subdolo, colpisce al cuore l’uomo devoto, disintegra la sacralità, e gioca anche sul proprio ambiguo nome, ché ‘moderno’ è parola cristiana, con la storia lineare che corre verso un fine, escatologia annunciata dalla Scrittura. La Chiesa di padre Ricci non è comunque quella del primo gesuita diventato «papa bianco». La Chiesa di Roma del Seicento appariva trionfante, non ancora «umiliata, diminuita, scoraggiata», come la definisce oggi l’arcivescovo di Vienna. Non inorridite dunque se l’«esortazione» argentina propone dei singolari missionari, ricordatevi che i gesuiti «sono troppo buoni: vorrebbero salvar tutti»; ma non è neppure la prima volta che si riscontrano dei seri danni derivati dalla buona volontà. Rendere il cristianesimo amico dell’uomo è cosa buona e giusta, renderlo amico del mondo è cosa rischiosa. Ai tempi di padre Ricci, probabilmente il medium non era ancora il messaggio. Non un dettaglio da poco. 

Morale del racconto. Tanta attenzione a non scalfire le tradizioni (purché non si tratti di quelle nostre) e poi comunque arriva la globalizzazione e trascina via tutte le forme diverse, le riduce a una sola, con un sol pensiero, una sola moneta, un unico scambio. Quello che non si volle concedere a Dio, quell’universalità che unificava gli umani nel segno latino della Chiesa romana, è concesso alla potenza del denaro. Restano soltanto i fedeli della tradizione a difendersi da simile ineluttabilità.

giovedì 5 dicembre 2013

Il gesuita modernissimo

 ~ A PROPOSITO DI UNA «ESORTAZIONE» ~

Gli ottimisti avevano sperato in una resipiscenza, scrutavano i segni, piccoli segni invero, e già si rincuoravano e confortavano a loro volta, con ragionamenti lambiccati, i confratelli nella Catholica: il Sudamericano non era un marziano a Roma, la successione apostolica procedeva con qualche balzo, causa anche l’espressività imprecisa di chi non parla la lingua madre (secondo le disposizioni di Ignazio di Loyola per strappare il suo esercito dalle radici etniche e farlo approdare all’universalità) ma neppure ricorre al latino che serve meravigliosamente a forgiare un magistero in sfida ai secoli invece di squagliarsi nel gergo effimero; si adducevano pertanto attenuanti prodotte dall’incomunicabilità e si concludeva che dopo tanti equivoci scatenati dagli ermeneuti maligni – quasi ci si trovasse di fronte a una Pizia ambivalente, sempre da interpretare, invece di un pontefice che dice «sì sì, no no» – finalmente l’uomo di bianco incoronato dai mass media tornava a dire le parole di sempre, quelle  del Vangelo.  

Bastò risuonare nell’incipit quel grido di «Allegria!» – alla maniera di un celebre presentatore della televisione quando voleva scuotere il suo pubblico sonnolento e iniziarlo ai messaggi pubblicitari – perché crollassero le beate illusioni. La «esortazione pontificia» Evangelii Gaudium somigliava atrocemente ai prodotti della televisione. Procedeva per slogan, «non fatevi rubare la gioventù!», «non fatevi rubare la speranza!», e altre celie del genere, intanto veniva lasciato incustodito il tesoro millenario e astuti comunicatori provavano a scassinare il Deposito della fede.

L’allegra intonazione della epistola alla cristianità, la volontà anche per spirito gesuitico di occultare ogni parvenza di dramma, non riusciva a cancellare il motivo di fondo: il cattolicesimo postconciliare perde colpi ogni giorno. La fede, opportunamente aggiornata, muore. Da mezzo secolo in qua, più la Chiesa si protende verso il mondo e più quello si ritrae, considerando poco interessante accostarsi a qualcuno che parla il tuo stesso linguaggio, ma di seconda mano. Una mondanità contraffatta, come i falsi delle borse di lusso, costruita da preti «simplices sicut columbae», non è attraente. Convinti che l’ideologia contemporanea getti una luce sulla fede – si dice infatti che la tradizione va letta alla luce della modernità – si procede da tempo con gesti concitati di autodemolizione, un po’ come accadde all’Urss a furia di misurarsi con l’Occidente e di vedersi sempre indietro di qualche decennio. È arrivato un Gorbaciov sul Trono di Pietro? Un autodistruttore?

Non se ne faccia comunque una questione generazionale, la tradizione è una faccenda ben più seria della nostalgia per l’infanzia, non è proprio il caso di ricorrere ancora una volta al sentimentalismo. E poi anche prima del Concilio la Chiesa era in crisi. Sempre in crisi, in attesa del ritorno promesso di Cristo, ma avvolta in una crisi sanguinante e tragica dall’avvento della modernità. Né il Concilio Vaticano I né il Sillabo avevano sanato le contraddizioni. Le parole erano logorate, coperte da tanta polvere. I padri conciliari del Novecento ne fabbricarono di nuove, avendo per conio la parola laica, autonoma dalla verità e da Dio. Quelle dell’ultimo vescovo di Roma sono addirittura rubate all’uomo della strada, depresso, fiacco, accasciato, titubante quando pronuncia le parole sacre. E il vescovo, fin dal suo primo giorno, ha paura di dirsi papa. Il pastore non rincuora il gregge, ne ripete il petulante belare, suscita confidenza au pair,  non si assume il ruolo di guida. Sarà forse la suprema umiliazione per la Chiesa questo pontificato che non vuole chiamarsi con il suo nome, che segue a un misterioso trauma, il papa che ha lasciato il trono di Pietro per spossatezza; sarà una prova dolorosa nella sua interminabile vigilia, una penitenza squassante. A immagine del suo fondatore, subisce così una pubblica flagellazione, le vesti antiche e preziose, gli ornamenti, le vengono strappati. I suoi fedeli più poveri sono coloro che di fronte allo spettacolo della madre martoriata soffrono maggiormente. Le ricchezze che avevano riempito i loro occhi erano soltanto quelle che contemplavano sugli altari.

Giornali, blog, televisioni, tutti quei mezzi che concorrono a costruire la cosiddetta opinione pubblica, e che in realtà è assai privatizzata, hanno preso diletto a tirare il personaggio vestito approssimativamente di bianco da una parte o dall’altra, ad attribuirgli sentenze sempre da aggiustare, a collocarlo di volta in volta tra le file dei progressisti e tra quelle dei tradizionalisti (quasi due squadre in sempiterno derby), trovando citazioni buone per tutti gli usi e anche per gli abusi (più arduo francamente inserirlo nella parte della tradizione, come non fosse successo niente, mentre basterebbe l’avversione per la cura liturgica, ribadita dai primi giorni, anche in modo burbanzoso, per stabilire la cesura con gli altri papi postconciliari, perfino con quel Paolo VI che sul rito latino da lui stesso soppresso sparse almeno copiose lacrime). Colpisce la mancanza d’eleganza nel pensiero – il culto della forma essendo caratteristica del cattolicesimo –, la sciatteria espositiva, l’estraneità alla solennità romana. Sarà allora legittimo intervenire su quanto avviene, criticare testi e gesti, richiamare i punti fermi del dogma, gridare al pericolo, avviare discussioni, fare confronti, sottrarsi all’untuosa iperdulia, perfino essere scossi da santa irritazione, ma non è ammissibile infilarsi in un paradosso ridicolo.

Che cosa c’è di più paradossale, infatti, del fedele alla tradizione cattolica che istituisce dei tribunali dell’inquisizione, formato personale, per sottoporre a giudizio papi e autorità gerarchiche?. Questa è una parodia della Riforma protestante, anzi è ancora più ‘protestante’ del luteranesimo, in fondo il frate agostiniano almeno all’inizio voleva discutere delle sue tesi, non sostituire il pontefice. Ma si legge di preti che decidono da un giorno all’altro di non riconoscere più il potere papale perché l’attuale vescovo di Roma avrebbe commesso un peccato di eresia (scandalizzati magari per una citazione di Paolo che loro non padroneggiano troppo). E quando mai è la coscienza del singolo che decide se un papa sia ancora papa o no? La Chiesa di Roma basa la sua organizzazione sul diritto canonico non sulle intuizioni profetiche o mistiche, anzi diffida moltissimo del profetismo e della mistica che vogliono modificare la gerarchia. Anche di fronte a casi di svendita del patrimonium fidei, non è con un gesto individuale che si mette a posto l’organizzazione di Pietro. Sono le regole della tradizione che prevedono procedure rigorose anche al cospetto di degenerazioni plateali. Nella razionalissima Catholica non si decide in base al capriccio del singolo, né in base alle proprie conoscenze (gnosi). Il parere giuridico e teologico va confrontato al parere di chi è preposto a quell’ordine, di istanza in istanza, secondo la gerarchia. Troppi tentarono di sovvertirla credendo di avervi individuato l’Anticristo, le strade dell’eresia essendo lastricate da questi terribili equivoci. L’obbedienza resta una virtù basilare anche se l’attuale vescovo di Roma non la menziona mai nel suo documento programmatico.

Ciò premesso, va pure precisato che questo «Almanacco» non ardisce stabilire quello che debba fare e non fare il successore di Pietro, sarebbe buffa e vana cosa prima che gesto di superbia tacchinesca; né pretende offrire risposte teologiche intorno al programma esposto nella «esortazione», limitandosi ad accennare a due o tre motivi in margine, dall’abbandono del linguaggio papale per discorsi volutamente senza forma (eppure il Logos è forma) al disprezzo nei confronti di Roma, dunque per quello che ha rappresentato e rappresenta. Ne viene fuori un ritrattino appena abbozzato, dove la prima caratteristica, alquanto preoccupante, è la mancanza di scandalo intorno al nuovo vescovo di Roma, scandalo che è iscritto nel destino del cristianesimo («scandalo per i giudei, stoltezza per i gentili» 1 Cor, 1, 22-24) e che ha accompagnato i papi dell’ultimo secolo. Qui c’è invece approvazione piena e comunque  lode sperticata da parte di chi non crede in Gesù Cristo e non si interessa nemmeno al suo messaggio. Nessun timore per questo plauso sospetto? Non si tratta del consenso dei suoi fedeli, le folle festanti che accolsero ovunque Karol Magno, ma il successo presso i laici manipolatori delle opinioni, che puntano soltanto alle ‘aperture’ della Chiesa, ai varchi, ai crolli della costruzione, coloro che si accanivano contro il papa polacco e contro il papa tedesco quando questi due scuotevano le coscienze contemporanee, i pregiudizi più saldi.

Cominciamo con la confusione che si rileva nelle prime pagine della «esortazione». La lieta novella apportata dagli apostoli, il gaudio di scoprire un senso nel cosmo e un senso nella nostra vita, garantito da Dio, la promessa che il senso della vita terrena sta in quell’approdo che segue la morte corporale, la speranza nel corpo celeste che è stato ammesso in Paradiso, la positività cattolica, insomma, si trasforma in una giocondità che la Bibbia proprio non mostra. Una arrampicata sugli specchi per scovare citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento che testimonino di un brio moderno, di una leggerezza dell’uomo slegato dalla sua dignitas o del bimbetto irresponsabile. Cristo non rise qui in terra, i maggiori pittori, fedeli alle Scritture, si guardarono bene dall’atteggiarlo ilare: severo nella vita terrena e severissimo, a cominciare da quello di Michelangelo, nel Giudizio definitivo. Se poi talvolta gli sfuggì una risata, che lo avrebbe confermato nella forma dell’uomo che prese, gli evangelisti non ce lo raccontano. Per attribuirgli il buonumore, un popolarissimo filosofo veneziano è arrivato a definirlo ironico nelle sue parabole, ironica, secondo lui, la storia delle vergini sagge e delle vergini stolte, ma se il Messia sorridesse sotto i baffi nell’esporre la terribile fine delle escluse, la tragedia di chi sarà dannato per sempre, egli sarebbe un cinico gnostico (il professore si è forse  guardato allo specchio?). Casomai il tema suggerito da quella parabola apre la più difficile delle riflessioni cristiane, quella sulla salvezza riservata a un determinato numero, il mistero della misericordia che rispetta la giustizia, il dolore per coloro che finiranno all’Inferno, altro che ironia. Non è tutto un teatrino giulivo, né i disperati moderni si riescono a soccorrere con le battute da oratorio. «Spirito di patata», diceva Ollio quando Stanlio provava a metter su qualche insulsaggine con la pretesa d’essere spiritoso, lo stesso «spirito di patata» che contraddistingue i preti attivisti della «pastorale», i giovanilisti, gli euforici che porgono la mano al mondo. Fin dal primo giorno, l’Argentino con la battuta del vescovo rinvenuto alla «fine del mondo», calembour sull’Apocalisse, rovesciamento in burla di parole sempre temute, ci ricordava quei preti che nella nostra infanzia apostrofavano i bimbetti: «ah, fai la quinta alimentare…», e subito ci ridevano per primi, a pavoneggiarsi con la cordialità, mentre dentro di noi si restava male per una simile sciocchezza, non riuscendo a capire come un ministro di Dio fosse talvolta così scemo. E che altro è l’atto di staccare le mani giunte al chierichetto, domandando se fossero incollate, minishow in cui si è esibito davanti alle telecamere il vescovo di Roma? Quante se ne sentirono di battute del genere anche nelle sacrestie dei Cinquanta, segno non di chissà quale eresia serpeggiante ma soltanto dello scherzetto da prete che ha lunga vita, di patetici tentativi di rendersi simpatici a ogni costo. Sennonché, e i giornali ci sguazzano, con tali scherzetti, e a tali altezze nella gerarchia, le cose sacre vengono inficiate peggio che con la blasfemia, la lingua sacra essendo irriducibile alla inflessione ironica o parodistica. Forse per questo Cristo non rideva, almeno nella testimonianza dei Vangeli.

Quanta pazienza è richiesta per scorrere le pagine dell’«esortazione», prevedendo con facilità che non si incontreranno i ragionamenti dotti del predecessore, non più le citazioni di Nietzsche e di Adorno cui ci aveva abituato il prof. Ratzinger, soltanto un lungo, ripetitivo, verbale di riunione parrocchiale, domandandoci perciò di tanto in tanto perché mai una persona raziocinante si dovrebbe interessare a un tale genere letterario scaturito dalla burocrazia clericale, cui si aggiungono le insegnanti di scuola che l’affiancano, pie dame che dedicano i loro pomeriggi a intorcinare la prosa degli evangelisti. A furia di buttar via la solennità, di fare a meno della forma, si finisce preda del peggiore gergo della comunicazione mercificata. Ci si appella  ai poveri di spirito, ma con la fuffa della Kultur contemporanea. Eppure procediamo nella lettura perché tra le frasi giornalistiche attribuite allo Spirito Santo fa la sua comparsa un triste programma di demolizione della cultura cattolica, condito di risentimento. Non sarà che una eclissi, ci ripetiamo fidenti, però nel tempo che ci resta da campare rischiamo di passare gli ultimi giorni  in fitte tenebre.

Chi arriva al secondo capitolo si accorge che le pagine si contraddicono l’una con l’altra (del resto, qui se la prende con la «mentalità individualistica» e altrove conforta i miscredenti con la storia della coscienza quale unico tribunale), la pochezza teorica essendo tale in questo gesuita moderno (ossia lontano dall’erudizione alla quale ci abituarono quelli di altri secoli) che si limita a mettere in fila dei luoghi comuni da parroco che ce l’ha con i superiori e che finalmente, per un colpo di scena, è stato chiamato a dir la sua a Roma. Un anonimo della periferia della cattolicità che, finito sotto i riflettori, parte all’attacco di tutta la dottrina e dell’apparato e delle regole. Subito dopo appiccicandoci devozioni popolari e gesti dimessi. Come in una sceneggiatura di un film improbabile. Eppure un povero curato dell’altro mondo che fosse cresciuto negli studi tradizionali, qualche gaffe la commetterebbe pure, qua e là avventurandosi su pericolose impalcature teologiche, ma i fondamentali li garantirebbe. Ci troviamo invece di fronte a una melassa sentimentale che si oppone alla oggettività cattolica. «Conversione del papato», vi leggiamo, il magistero ridotto a noticine a piè di pagina dei Vangeli (e note di sfrenato soggettivismo, da somigliare ai diari d’adolescente piuttosto che alla costruzione razionale dei teologi), la missione affidata a tutti, come nella vulgata protestante. Facile la domanda che vien su immediatamente: perché scegliere Roma e non Heidelberg o Mosca?

Dalle sue parole la Chiesa appare proprio una Ong, sigla che sta per una impresa commercial-caritatevole, che cura malati e sfortunati, quasi in queste attività assistenziali esaurisse la sua missione, lasciando da parte la celebrazione solenne della potenza divina che non si può condividere con l’umanità secolarizzata. Anzi, secondo l’autore della «esortazione», chi si attarda in simili attività di altre ère, è un ideologo che sottrae tempo prezioso al sociale, un ossessionato dai riti. La voce dell’eterno manca del tutto in questo discorso attraversato da piccoli impegni del nostro orizzonte quotidiano. Chiacchiere tra schiavi della storia, a cui viene sottomesso di tanto in tanto anche il santo Vangelo, opportunamente selezionato. «Siamo figli di quest’epoca» è il grido orgoglioso.

Però, prima di sacrificare a favore del sociale quanto di più eccelso possieda il mondo, la liturgia cattolica messa a punto dai santi, prima di liquidare la faccenda come si fa nella «esortazione», dove viene utilizzata la formula «stile del passato», con l’imperdonabile vizio di guardare ai modi del rito dal punto di vista estetico (seguendo le tre età: antica, moderna e contemporanea), è buono ricordare che. i malati, i vecchi, i poveri amano sentire i preti che raccontano loro le meraviglie del Paradiso piuttosto che le piccole infelicità terrene di malati, vecchi, poveri. In quelle infelicità sono immersi quotidianamente. Il tempo liturgico riesce a dare loro maggior conforto del tempo della loro quotidianità, dei giorni della sofferenza che si snodano trascinando al precipizio. De profundis l’animo tribolato grida e chiede un tempo speciale, quello del rito.

La faccenda della predilezione di un ermeneuta posato del Concilio aveva entusiasmato il versante tradizionalista. Una concordia, si è accennato all’inizio, durata ben poco. Nella «esortazione» trova invece coronamento l’ideuzza prometeica, scaturita nell’assemblea vaticana di mezzo secolo fa, secondo la quale con quell’adunata episcopale si fece un salto di duemila anni e si tornò al cristianesimo dei Vangeli, dopo  un equivoco durato per tutta la storia cristiana, perché i nostri padri e i padri dei nostri padri, i santi e i pontefici di questa religione, i poeti e gli artisti e i musici che la addobbarono e la fecero risplendere agli occhi del mondo, tutti avrebbero commesso un peccato mondano, tutti corruttori e corrotti, ingannatori o ingannati, tutti fino ai Lumi conciliari, all’intuizione di un vecchio papa bonario, ai libri di oscuri francesi e tedeschi professori in teologia. Prospettiva già postmoderna, priva della più elementare carità verso il passato, dissipatrice del patrimonio petrino, anche del sangue copioso dei martiri, dei testimoni, traballante fin dal suo concepimento, mentre si scriveva, con documenti che a distanza di un relativamente breve intervallo temporale mostrano il grottesco, scopiazzati come sono da personaggi dello star system filosofico e letterario laico anni Cinquanta, roba che eccitava i seminaristi del tempo in libera uscita ma che si usurò rapidamente come tutti i pensieri alla moda.  Carità  di patria vorrebbe che si stendesse un pietoso silenzio su quelle montagne di carta, ché solo un sottile avversario potrebbe tradurli integralmente, pubblicando a fianco le imbarazzanti fonti. Sai che pena: queste le teorie che pretendevano sconfiggere il pensiero di Tommaso e di Bonaventura, queste le scritture che pretendevano buttarsi alle spalle l’arte letteraria di Dante e di Galileo. E infatti, nei decenni che sono intercorsi, i più fedeli alle scartoffie burocratiche conciliari si sono limitati a distillarne qualche citazione, a ripeterne le parole d’ordine. Ora, senza mantenerne le distanze, quei discorsi invecchiati vengono riproposti dal vescovo di Roma che li traduce in un linguaggio ancor più rozzo e infiammato, avendo tagliato i ponti con ciò che restava di aulico nell’assemblea conciliare, e presentandosi come una specie di allenatore delle partite di calcio che tanto gli stanno a cuore, un Mister del solidarismo che s’agita,  urla e abbraccia sui campetti di periferia, non mancandogli neppure l’allure tracotante di certe figure del football.

Si diceva del gesuita moderno. Non è solo un quantum culturale  a distinguerlo dai suoi confratelli del passato che rappresentavano la longa manus della Chiesa in ogni dove, che preoccupavano le teste coronate del secolo dei Lumi al punto da chiedere a papa Clemente XIV lo scioglimento dell’ordine. Né pesarono solo le accuse che Gioberti rimetterà in circolazione nel primo Ottocento, raccogliendo maldicenze e cattiverie di mezzo mondo contro la Societas e i suoi uomini: lassismo morale, misticismo, ingerenze politiche… Fu soprattutto la loro principale caratteristica di agenti segreti e palesi del papato, di pretoriani spirituali di Roma, di fedelissimi della persona del pontefice, che spaventarono laici e clero. Perfino regicidi furono considerati, sovvertitori dell’ordine sociale, a maggior gloria della supremazia del papa. Anche i gesuiti moderni si batterono per la massima centralizzazione del cattolicesimo, slegati dai vescovi locali, vincolati al papa con un voto speciale. Difensori in formazione a testuggine del potere pontificio per il periodo del cosiddetto Risorgimento, araldi del Sillabo e del dogma dell’infallibilità papale, sconfitti in Germania dal Kulturkampf, schierati nel Novecento contro il Modernismo. Almeno fino alle vicende scapigliate dell’ultimo mezzo secolo, quando cioè la Compagnia parve rovesciare la propria storia, i gesuiti mantennero fede al voto di obbedienza assoluta – «proprio come un cadavere» –  alla volontà del successore di Pietro. Sempre meno obbedienti nell’ultimo scorcio, i padri gesuiti dimenticarono Roma, le voltarono le spalle, la denigrarono. Per finire con il gesuita modernissimo che, salito al soglio, si mette a smantellare l’idea di primato, a favore del policentrismo.

Fine del papato, ci annuncia nella «esortazione», o meglio, «conversione del papato» dice con gusto provocatorio, almeno così come lo abbiamo conosciuto nei secoli dei secoli, fine della liturgia che anticipa in terra il Paradiso, fine anche del magistero (per adesso, la coscienza può bastare) e della teologia. Al loro posto, un po’ di sociologia e molto psicologismo. Si badi a come il vescovo di Roma condanna i reprobi. Qui non si dice il modo, che peraltro non è certo amorevole, ma in nome di chi e di che cosa egli emette le sue condanne. Non ricorre mai a sentenze di papi o di dottori della Chiesa, e men che mai ai Concilî dogmatici, non c’è dogma né sono evocate tavole assiali ben fondate, si tratta semplicemente di un giudizio psicologico, e si sprecano termini come ‘narcisista’ o ‘autoritario’, naturalmente per raffigurare gli unici nemici della sua missione: coloro che restano fedeli ai padri. Il solo peccato contro lo Spirito sarebbe la celebrazione rituale, l’osservanza delle regole messe a punto da Gregorio Magno e, ancor più grave, la mancanza in tali celebrazioni di fantasia e inventiva. Si arriva alla critica della  «cura ostentata della liturgia». Risibile il successore di Pietro che incita alla «incuria liturgica», alla trasandatezza nei sacri riti, o quantomeno a ostentare negligenza sull’altare per poi magari, sotto sotto, celebrare con devozione. Questo possiamo dedurre da una sì strampalata frase che però sgorga dal petto ‘conciliare’, sentimento vivissimo di antipatia per quell’universo tanto distaccato dai fenomeni terreni, benché l’Onnipotente vi prenda forma nei concreti pane e vino. Torna insistente la frase fatta del museo, liturgia d’altri tempi da confinare nel museo. Non ha mai letto, lui così ecumenico, il vescovo di Buenos Aires che intratteneva buoni rapporti con la chiesa ortodossa, con gli esuli sfuggiti al comunismo e finiti nel nuovo mondo, il libretto del santo pope Florenskij, ucciso nei campi di concentramento dai bolscevichi: per difendere le reliquie della tradizione dalle violente incursioni dei rivoluzionari, padre Pavel Alexandrovič sosteneva in lingua laica che icone e sacri arredi erano irriducibili al museo, che la loro forza si impone a dispetto dei secoli. Ma il vescovo cattolico ha chiuso le Porte regali, l’iconostasi dove si originano il mondo visibile e quello invisibile, preoccupandosi soprattutto dei piccoli mali ultravisibili.

Povero vescovo di Roma che ha in animo di scatenare una guerriglia spirituale contro chi affama il suo Terzo Mondo e che nella prima epistola ufficiale si lascia andare ad ammissioni che neppure  i propagandisti dell’Occidente avrebbero più il coraggio di diffondere: egli si fa laudatore di tre successi moderni, a suo parere dei notevoli punti d’arrivo del progresso (questo totem che inganna anche i papi). I tre campi del trionfo umano sarebbero quelli della salute (e bastano gli scritti di Ivan Illic a smentire quel mito), dell’educazione (cioè dell’addestramento al pensiero unico) e della comunicazione (lo spettacolo delle merci che mercifica la persona). Peccato che ci siano pochi soldi in giro – si rammarica –, che non si possa far godere l’intera umanità di tali beni eccelsi, altrimenti sarebbe davvero il Paradiso in terra.

Affinché allora tutti usufruiscano di un simile bonum, del prodotto più altisonante del capitalismo occidentale, il successore di Pietro grida il suo no alla «economia dell’esclusione». Un aggiornato «ut unum sint»: che tutti siano inclusi in un unico sistema, anche se quell’ordine non ha niente di cristiano. Si compiangono le grandi masse che, fuori dalla economia globale, restano «senza prospettiva». Ma perché mai per la Chiesa di Roma la prospettiva dell’umanità sarebbe il salario, la sottomissione alle necessità economiche? Era forse questo il contenuto del gioioso annuncio evangelico? Uno spettrale scenario pare il sogno del vescovo dell’Urbe: tutti inclusi, un’economia unica, un pensiero unico, senza differenze né scarti, all’insegna della mediocrità, ancor peggio del socialismo, più sentimentale e quindi con maggiori rischi di morire di fame tutti, sia pure con le più belle intenzioni di questo mondo.

Siamo nel limbo malinconico della vaga sinistra, dove si ripetono i lamenti che non porteranno mai ad alcuna soluzione. Generiche critiche della globalizzazione che vìola le culture locali. Non si ricorda mai che anche quelle europee, cristiane appunto, specificamente cattolica in Italia, sono sottoposte a una trasformazione violenta. Adesso la maestra delle elementari ha paura di fare il presepio. Ma al vescovo di Roma non gliene importa niente. Si duole soltanto se gli idoli africani sono stati respinti dai missionari con il Vangelo.

La Cattedra petrina pronuncia una «esortazione» per rubare le coloriture a Blade Runner: «le città sono scenari di proteste di massa». Invece di mostrare l’orrore del cristianesimo finito nella «massa», così come faceva con passione il teologo e letterato tedesco Romano Guardini di fronte alla Germania distrutta dalla massa, invece di dare un affettuoso rabbuffo agli stolti che perdono il loro tempo, facendolo perdere anche agli altri, nell’occupare vie e piazze, dà loro credito, quasi si trattasse di un evento apocalittico.

Si vuole tanto storicizzare la verità cristiana, sia lecito storicizzare anche le parole del suo massimo custode. A Roma ha portato le frasi fatte della teologia sudamericana dei poveri. Una mescolanza velenosa e soprattutto ambigua: la povertà evangelica, lodevole, punto di arrivo del cristiano, segno virtuosissimo del distacco dal mondo, si rovescia nella povertà socialista da colmare con il lavoro salariato. Scriveva Giacomo Leopardi alla sorella: «la felicità e l’infelicità di ciascun uomo (esclusi i dolori del corpo) è assolutamente uguale a quella di ciascun altro in qualunque condizione si trovi questo o quello. E perciò, esattamente parlando, tanto gode e tanto pena il povero, il vecchio, il debole il brutto, l’ignorante, quanto il ricco, il giovane, il forte, il bello, il dotto: perché ciascuno nel suo stato si fabbrica i suoi beni e i suoi mali; e la somma dei beni e dei mali che ciascun uomo si può fabbricare, è uguale a quella che si fabbrica qualunqu’altro» (Lettera a Paolina Leopardi del 28 gennaio 1823). Fin qui arriva la saggezza laica, poi sopraggiunge la Chiesa con l’Inferno e il Paradiso a cambiare la prospettiva, al di là di questa stoica accettazione dello stato di cose, a indicare la felicità assoluta e la rovina eterna.  Nella «esortazione» del vescovo gesuita si parla tanto di poveri, ma senza la giustizia del Paradiso e dell’Inferno che senso ha? (Si veda,sull’«Almanacco» di pochi mesi fa, la predicazione di un altro gesuita, il nostro sommo letterato Daniello Bartoli, affrontare il tema spinosissimo della povertà: http://almanaccoromano.blogspot.it/search?q=daniello+bartoli).

«La solitudine si deve fuggir» era il ritornello dei collegi gesuiti d’una volta dove si temevano le pratiche erotiche solitarie. Calcetto Balilla e cineclub rappresentavano le alternative. Il sabato pomeriggio, i giovani borghesi si recavano nelle borgate a portare i pacchi ai poveri. Adesso il gesuita che ha preso il potere assoluto della cattolicità indica altri impegni sociali. Vuole tutti missionari e rivoltosi e sacerdoti al contempo. Tutti indistintamente, come neppure un papa medioevale avrebbe mai preteso. Viene a mancare quel realismo romano che è stato uno dei più miracolosi doni della Provvidenza nei venti secoli di civiltà cristiana.

Un tempo Paolo VI predicava la pace come fosse un redivivo Innocenzo III, sentendosi soggetto terzo tra i sovrani del mondo in lotta. Corroborato dalle teorie medioevaleggianti di Maritain, anche alla tribuna dell’Onu parlava come se fosse affacciato alla Loggia lateranense, parlava in nome della Chiesa millenaria, «esperta in umanità», rivolgeva con moniti da re dei re messaggi politici, magari un po’ inutili. Durante la guerra in Vietnam, per esempio, gli Stati Uniti, benché colpiti da tanta maestosità, tendevano a rinchiudere l’attività papale a favore della pace nell’azione propria della Croce Rossa, in un ospedale da campo vagamente metafisico dove scambiare i prigionieri. Passato appena mezzo secolo, nel residence Domus Sanctae Marthae i discorsi da parroco sulla fratellanza nei quartieri, su gelosie e invidie, agitano piccole emozioni solo nelle folle che non hanno niente di meglio da fare che accasciarsi stanchi davanti allo schermo televisivo. Sono sfiorate, quelle folle, da un reality evangelico, da un’amorevole telenovela latino-americana, anche nei modi espressivi, non trasformate dal Logos cristiano. In meno che non si dica il telecomando porta su un altro canale, in un’altra emozione.

Lo sceneggiato spumeggiante d’amore in onda dall’albergo vaticano si intorbida su un solo punto, quando si additano i cattivi. Sul medesimo piano vengono fatti comparire gli gnostici e i neopelagiani, intendendosi con quest’ultimo termine, Dio solo sa perché, i fedeli alla tradizione cattolica. A voler dare patentini eretici, basterebbe evocare i marcioniti per cui risultava indegno del Padre giudicare... Ma non si è così ottusi da scivolare in simili  polemiche, si sa benissimo che all’origine c’è la buona volontà della Compagnia, il suo ottimismo trascinante, che fa sparire nella «esortazione» la giustizia divina. Il fatto è che la spregiudicatezza degli ignaziani andava di pari passo con la cultura della sottigliezza, con lo straordinario addestramento intellettuale. Il gesuita modernissimo fa solo l’ottimista. Dalle sue parti spira lo stesso spirito che nel mondo della réclame. Ma anche dalla parte opposta non si intravede un Blaise Pascal né i ferrei logici di Port Royal.

Collocare in trono un papa non europeo è stato uno sconvolgimento culturale dal momento che la Chiesa degli ultimi decenni non è più universalistica, romana. In Sud America vige il terzomondismo teologico e ci si scontra con le sètte pentacostali, il carisma rock, le magie spettacolari. La battaglia non è però dottrinale, si scende sul terreno dei settari, tra dialogo e concorrenza spiccia a base di ‘creatività’ mistica. Quella che, non a caso, il vescovo argentino vede tanto di buon occhio. Allo stesso modo, un presule africano sarà alle prese con il tribalismo e la magia degli stregoni, uno asiatico con i sincretismi religiosi in voga laggiù, cosicché ciascuno verrebbe ad avere un punto di vista particolare che, una volta a Roma, lo porterebbe a forgiare la curia secondo il suo modello locale. Ora, invece di sottolineare con forza la centralità romana, Pietro che viene a Roma e parla il linguaggio di quell’impero universale, Paolo apostolo delle Genti che proclama il vanto della sua cittadinanza romana, invece di ritradurre in latino le denunce e i tormenti delle periferie del mondo, invece di rileggerli alla luce della dottrina universale e oggettiva, si taglia la testa al papato e ci si lascia andare alle Chiese acefale. Non ci si modella più sul Credo, «una, santa, cattolica», che appunto vuol dire universale, unica per tutto l’orbe, ma sull’Onu, con le conferenze nazionali. I santi che nell’Inghilterra di Maria Stuarda o nella Germania della guerra dei Trent’anni o nella Cina delle Chiese di regime restarono eroicamente fedeli a Roma, a quel luogo metafisico scelto da Cristo per costruire l’impero delle anime, gli innumerevoli santi martiri di una battaglia millenaria contro il potere politico, si sentono oggi un po’ traditi da una simile «affettività anti-romana», come la definiva Carl Schmitt.

Edgar Wind, uno dei grandi studiosi novecenteschi del Rinascimento, citava con deferenza Pio XII per dei passi di una sua enciclica in cui trattava dell’arte sacra. Le frasi sulle immagini del suo attuale successore offrono uno spunto proficuo per discussioni al bar, semmai al bar si dibattesse di simili temi. La Evangelii Gaudium si fa così paladina della pseudoarte  delle istallazioni. Tout se tient. Il papa pop non può non rilevare le affinità elettive con questa estetica della desolazione e scrive ai suoi preti: aprite le chiese alle brutture del Contemporaneo, anche se non le capite, anche se ne provate ribrezzo, fidatevi dello spirito del progresso, se piacciono alla gente usatele, il fine giustifica i mezzi, altro che Machiavelli, forse è un motto ascrivibile alla Societas, il frutto della volontà generosa di tutto sottomettere alla cristianizzazione della terra, anche se il fine, come in questo caso, non può strumentalizzare certi segni estetici perché di una brutalità che chiama in causa Satana. 

Le parole precise con le quali si autorizzano e promuovono nuovi mostri nei templi cattolici sono queste: «È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo “linguaggio parabolico”. Bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali, e comprese quelle modalità non convenzionali di bellezza, che possono essere poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli altri» (§ 167). Ossia: che gli evangelizzatori si pieghino al gusto di coloro che sono da evangelizzare, che si faccia un compromesso con le pompe del mondo e del suo Principe. Le frecciatine all’individualismo mal si accordano con quella completa soggettivazione del cattolicesimo aperta dall’ultimo Concilio.

L’Occidente che legge molto, troppo, conosce il Vangelo ma respinge il suo messaggio. È la vicenda moderna. Che non si risolve inviando come missionari i piccoli strateghi mediatici, i burocrati della parrocchia con i loro documenti verbosi, con i casi umani, le liturgie chitarresche, le lepidezze da oratorio. Questo esercito un po’ comico e molto maldestro dovrebbe sostituire i preti tradizionali  e ottenere migliori ascolti dei Bossuet del passato. Disarmanti. Non hanno un manto con cui rivestire le umane miserie, non l’aura dei secoli che li sottragga all’effimero, alle oscenità della Storia, alle vicende ridicole che accompagnano molti dei nostri gesti ufficiali. I santi ci vorrebbero, e qui non li si invoca abbastanza. «Il popolo di Dio che annuncia»: è uno spettacolo di protestanti di seconda mano, di pietismo proletarizzato, senza salotti e senza tè, niente a che vedere con i grandi maestri dell’omiletica che ottenevano le lacrime dei più duri logici e i sospiri dei più semplici. Niente a che vedere soprattutto col magistero romano circonfuso di gloria. Se quella luce pare vinta dai lumi moderni potenti e artificiali, non si può credere di combattere la buona battaglia con armi-giocattolo. A colpi di slogan si ottiene il consenso tra i campesinos addestrati dai guerriglieri non tra le genti libere dei grandi imperi.

Occidente e Oriente non sono più le grandi articolazioni della terra cristiana. All’interno dell’Occidente geografico, per esempio, gli abitanti delle metropoli europee hanno poco a che spartire con gli abitanti delle Ande. Utopistico pensare di ordire un’unica missione per tutti. Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso sono per tutti, ma appena si passa alla missione sociale c’è il rischio della incomprensione completa.

Che cosa c’è di più compromissorio col secolo – e quindi di più mondano (in un’epistola che si accanisce contro la forma mondana) – di limitare «la potestà sacramentale» riservata agli uomini – come si legge al paragrafo104 – onde evitare che diventi «motivo di particolare conflitto». Così parla il politicante che vuole tenere a bada i sudditi, non il pastore che testimonia la verità. Salti mortali faceva Pio VII con Napoleone, tessendo la tela del compromesso, ma non si dilungava poi in prediche sulla «spiritualità mondana». Del resto l’autore della Evangelii Gaudium anche quando parla al potere laico gli chiede di cedere affinché la violenza non diventi troppo minacciosa. Gesuitismo machiavellico per cui non si distingue più tra torto o ragione, semplicemente si chiede di cedere al ricatto, quasi il Vangelo fosse un libro di vigliacchi.

Per evangelizzare i popoli – ammonisce il vescovo di Roma – non bisogna ricorrere a una «determinata forza culturale», «per quanto bella e antica» (§ 117). Si rispettano canti e danze africane ispirate alla tradizione più arcaica, d’accordo, ma perché non si concede che l’Europa attinga alla sua tradizione? È già dimenticata anche dai suoi vescovi? Perché vietare la forma più alta della sua liturgia, della sua arte sacra, della sua musica? Perché i congolesi possono ballare durante la messa sui loro ritmi pagani e noi si dovrebbe rinunciare alle preziosissime forme del Gregoriano o alle Messe di Mozart? Perché, di grazia?

Quando oggi uno afferma che «ogni popolo è creatore della propria cultura» (§ 122) o è un candido o un impostore. Culto romantico del popolo in un tempo in cui non ci sono i profeti a scuoterlo, a criticarlo, a minacciarlo con i castighi divini. Oppure, in un altro passo, leggiamo che la politica «cura di raccogliere il meglio di ciascuno»: ideologia della più bell’acqua.

Ci si concede un termine irriguardoso per un’altra religione ma è una svista, anche se ripetuta: «fariseo» appare come epiteto dispregiativo. Pare trasandata tra i fautori dell’infinito dialogo l’espressione che Cristo non temeva di scagliare in furente polemica. Ancora oggi la maggior parte dell’ebraismo si richiama al fariseismo. Sorprende un po’ trovare una simile accezione di quella parola nell’epistola del vescovo gesuita, dal momento che i farisei furono accostati nel corso della storia ai reverendi padri della Societas, con i quali condividevano l’accusa d’essere ipocriti: dottrina salda ed elasticità nell’applicazione. Ma il gesuita modernissimo conosce solo l’elasticità della applicazione.

«Parlare con il cuore» è l’ossessivo ritornello, il virus che provoca l’epidemia del sentimentalismo. Il Logos di cui si fa annunciatore Giovanni, l’essenza del cristianesimo, non figura granché nelle istruzioni papali sulla evangelizzazione. Si dedicano diversi paragrafi (a cominciare dal 146) all’addestramento dell’oratore. Sembra di entrare in una agenzia pubblicitaria: parlate positivo, pensate positivo, è il Leitmotiv, non permettetevi una qualche critica all’umanità secolarizzata. Il «Guai» divino, che risuona potente nel Giudizio Universale, qui non trova eco.

Tra i consigli per un corretto sermone non c’è quello di rifarsi alle interpretazioni della tradizione cattolica in merito a un determinato passo evangelico da commentare la domenica, non c’è un accenno al magistero. Il prete deve fare tutto da solo, augurandosi che lo Spirito Santo comunichi direttamente con la sua coscienza. Deve invece prender lezione dal vescovo romano per quanto riguarda la retorica, la strategia mediatica, le pose (ma pare si tratti di una scienza della comunicazione alla buona, che andrebbe bene anche per i predicatori delle sètte).

Lo Spirito Santo è ridotto così a un tappabuchi: deve dare gli spunti ai preti che non sanno come fare la predica (la stessa grazia di suggerire loro il tema d’italiano che gli studenti ignorantelli d’un tempo chiedevano ai santi) e deve «fecondare gli stili di vita». Forse andrebbe invocato perché consigli al suo massimo rappresentante in terra di non prendere le parole in prestito dalle riviste di moda. Il pastore dice «vita», non si appassiona alle abitudini, imposte dalle circostanze,  che viziano la vita.

Dopo aver letto nella «esortazione» dei tanti sforzi per preparare la predica, si capisce quel che ci è accaduto di vedere nella chiesa madre della Compagnia, al Gesù di Roma, qualche settimana fa. Entrati di domenica all’ora della messa, attraversavamo la navata per accostarci all’altare mentre il celebrante teneva il suo sermone, ma arrivati a metà della chiesa  ci si imbatté in un vero e proprio sbarramento, non si passava. Attaccato a questa barricata alla buona c’era un cartello: è vietato entrare durante l’omelia per non disturbare l’oratore e gli ascoltatori. Si rimase basiti. Proibito distrarre il discorso del prete ma lecito distrarre i fedeli con il proprio passaggio durante la parte successiva della messa, quando avviene il sacrificio che ripete la crocefissione, quando si realizza il miracolo eucaristico, quando la liturgia osa servirsi delle stesse parole dei cherubini e dei serafini. Si pensò a un errore, forse andava inteso: dal Vangelo in poi è vietato l’accesso a questa specie di sancta sanctorum. E invece no, al termine del discorso, un sacrestano riaprì il varco, si poteva passeggiare, curiosare alla maniera turistica, mentre il sangue veniva offerto al Cielo in un calice. Che cosa era il «mistero sacro e tremendo» di fronte a una dotta conferenza? Per la cronaca, l’onesta predica dove non volava una mosca forse non innalzò i cuori in modo speciale. Si parlava di Paradiso (Lc. 20, 27-38), e il prete citò un cantautore e la sua canzonetta che si riferiva all’aldilà. Si parlava di Paradiso, nella chiesa del Gesù, e il prete gesuita si guardò bene dal fare un solo accenno a quello scorcio paradisiaco che si apriva sopra le nostre teste, frutto dell’arte berniniana di Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccio.

Di fronte a tante raccomandazioni per una predica  «creativa» – sì, in un documento ufficiale il vescovo di Roma ricorre a un tale aggettivo ‘sartoriale’  – e di fronte alla continua apologia della   coscienza quale unico orientamento del cristiano, viene da formulare una domanda del genere: sarà lecito al predicatore, prete o laico (pare non sia troppo importante), uomo o donna (altra distinzione superata), commentare e anzitutto leggere la Lettera ai Romani di Paolo sottolineando le parole che riserva alla sodomia? O bisogna tralasciare quel suo veemente insegnamento perché al giorno d’oggi risulta non troppo apprezzato dal mondo? E la I Lettera ai Corinzi, sempre di Paolo, sarà concesso leggere all’assemblea in tutta la sua fermezza quando recita: «non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio» (6, 9-11). Chi sarà stato lui, Paolo, per giudicare? Molto semplicemente uno degli apostoli in continuità con i quali la gerarchia ecclesiastica perpetua l’opera di Cristo su questa terra. Le coscienze autonome, vagamente confuse, ascolterebbero in questa improbabile predica ancora la voce di Paolo che dice: «Chi si oppone all’autorità si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna» (Rm 13,1-2), e rifletterebbero su una «esortazione» che minaccia i potenti con le masse di «oppositori all’autorità».

Un anonimo commentatore nelle discussioni nella rete poneva un problema serissimo: «qual è lo scopo della missione? Il benessere fisico e morale della gente? Ahinoi che disastro!». L’abbraccio fatale con il mondo ha manomesso il senso dell’eternità.

«La Chiesa deve essere il luogo […] dove tutti possono sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati» (§ 114). Come dire: l’umanità malata viene aiutata a perseverare nel suo male. Giovani e meno giovani, coccolati spudoratamente dal mondo trovano perfino nella Chiesa una madre che li vizia, nessuno più ricorda la verità del «legno storto» che pure è stata ammessa da un filosofo illuminista come Kant. Ma davvero «aiutare un altro a vivere meglio» (§ 274) è il massimo dovere cristiano? Che cosa si intende per «vivere meglio»? raggiungere uno stato di benessere o quello della povertà cristiana o della sofferenza che purifica? (Scopriamo poi che il gesuita pensa al primo punto, al benessere). Del tutto nascosta, come si conviene a una predicazione della Compagnia, il problema della colpa, del peccato originale. Suscitando l’indignazione dei giansenisti, anche padre Matteo Ricci, S.J., accarezzava le abitudini, gli stili di vita (scriverebbe l’autore della «esortazione»), i pregiudizi e i vizi dei cinesi che evangelizzava, ma si rivolgeva ai sapienti, ai mandarini. L’attuale vescovo di Roma propone lo stesso vezzeggiamento a folle brute, disinteressate ai problemi metafisici come a quelli fisici. Né si propongono loro dei «riti cinesi», li si degrada nella messa rock.

«Il nostro mondo ferito» andrebbe curato attraverso la attiva collaborazione di credenti e non credenti, ripete spesso. Ma esattamente dove il mondo si è fatto quelle ferite e soprattutto chi gliele ha inferte? La violenza totalizzante del Novecento non è forse il derivato di concezioni ateistiche e gnostiche, di attacchi truculenti alla «vecchia visione cristiana», di una rivoluzione culturale lunga un secolo che voleva fare a meno di Dio e della Chiesa? Si può guarire questa ferita collaborando con i feritori? O dobbiamo pensare, contro gli storici e il buonsenso, che il fascismo o il comunismo o il capitalismo selvaggio siano il frutto del cattolicesimo trionfante? E non sarebbe meglio, sia pure con il massimo rispetto per questi signori che non credono a niente, rispolverare un po’ di apologetica senza la quale gli uomini appaiono assai disorientati?

La resurrezione di Cristo «non è cosa del passato, contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo» (§ 276). Che civettare con le espressioni new age:  «forza di vita», vitalità, «germogli di vita». È imbarazzante, troppo outmode, annunciare che Gesù è risorto da morte? La resurrezione si riduce a una metafora generica, alla sua luce l’essere umano «è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili». La grande speranza cristiana, quella nella vittoria sulla morte, sarebbe soltanto un modello simbolico per uscire dalla depressione? Simile annacquamento del fondamento cristiano proviene da vari documenti conciliari e postconciliari, sempre citati in nota, atti di convegni, di riunioni e di assemblee, una letteratura che ha ormai anni e anni, non è innovazione ‘argentina’ ma qui assume un tono particolarmente arruffato. Ancora per spiegare la resurrezione: «Tutti sappiamo per esperienza che a volte un compito non offre le soddisfazioni che avremmo desiderato, i frutti sono scarsi, i cambiamenti sono lenti e uno ha la tentazione di stancarsi» (§ 277). Chi non ha letto testi del genere all’ingresso della metropolitana per pubblicizzare corsi di yoga e di psicologia? Talvolta quelle prose sono più scorrevoli, raggiungono più facilmente l’obiettivo. Che pena trovare le epistole del vescovo di Roma in tutto simili, anche nel messaggio che si vuol comunicare, ai volantini dello yoga.

Se i papi novecenteschi che precedettero il Concilio avessero seguito anch’essi il brutto uso di favorire l’andazzo secolare, o quantomeno di cavalcarne l’onda, o comunque di mimare il suo linguaggio, che cosa sarebbe accaduto quando mezza Europa si lasciava conquistare dai fascismi a forte carattere biologico – compreso qualche erede al trono del Regno Unito, segno di un’epidemia diffusa in ogni rango –, e un’altra parte si faceva sedurre dal comunismo di Stalin? I più sofisticati esteti si mettevano al servizio dei bolscevichi slavi, gli artisti urlavano la rabbia anti-borghese, i grandi pensatori, a cominciare dal croceuncinato Heidegger e dal bolscevico Luckács, annunciavano di avere oltrepassato la linea, non si tornava più indietro, Cèline, il buon medico dei poveri nella banlieue, pretendeva niente di meno che un massacro finale degli ebrei, degli affamatori degli umili, secondo lui, Simone Weil non voleva far guerra ai tedeschi invasori se prima non si fosse recitato il mea culpa per il colonialismo francese, ondate imponenti di grossi nomi, altro che i pretini del dissenso d’antan, mentre la vox populi inneggiante al sangue era convinta d’essere la vox Dei, ebbene di fronte a ideologie divenute nel frattempo carne e sangue dei popoli, che cosa avrebbe dovuto fare il pontefice romano secondo i parametri post-conciliari? Rivedere il magistero «alla luce» del Volk germanico o dei nuovi destini che attendevano l’Italia? Doveva rallegrarsi il supremo pastore per la diffusa e popolare nuova visione di Gesù sottratto ai sacrifici e ripulito del sangue dai Deutsche Christen? Accettare il decreto nazi che nel 1938 aboliva nelle scuole la rappresentazione del Natale, in modo da evitare il proselitismo tra i più piccoli e l’offesa dei sentimenti dei seguaci di Odino? Guardare al «sole libero e giocondo» che decretava la provvidenziale grandezza di Roma? O alle masse proletarie che si riscattavano dai millenni di schiavitù (una specie di Vaticano II quanto a epocalità)? Per fortuna, per grazia di Dio, a Roma regnava Pio XII, pontefice che, unico tra tutti i protagonisti di quei pessimi anni, ebbe il coraggio di parlare in modo diverso e in controtendenza alla radio, di apparire ieratico  e inattuale tra gli assatanati in grande concitazione, di ricordare alle libere coscienze (pronte ad accomodarsi a qualsiasi patto) che «centinaia di migliaia» di vittime innocenti, «senza veruna colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe» venivano mandate al massacro. Era la notte di Natale del 1942, la Germania sembrava vincere la guerra-lampo, tra i nazisti si sussurrava di cancellare a breve il cristianesimo. Il papa disse quelle parole che nessuno osava pronunciare servendosi della sua radio, la Radio Vaticana, gli altri media non lo esaltarono, rimasero freddi. Tutti tacevano, perfino i sionisti. Fu il solo a parlare. Tanto straordinario, tanto eroico, da suscitare, anni dopo, le critiche dei pusillanimi collaborazionisti con lo Zeitgeist, che volevano mettere in pace la loro coscienza: non avevamo capito, egli doveva parlare più chiaramente. Nella «esortazione» quel papa non ha meritato alcun cenno. Forse per l’Argentino sono questioni dell’altro mondo. Vuoi mettere le faccende del cosiddetto ‘precariato’ che tanto gli stanno a cuore, delle difficoltà di ottenere i mutui per la casa. Immaginatevi quanto se ne sarebbe occupato Gesù Cristo.

Sono ormai lontani i tempi in cui – ancora trenta, quaranta anni fa – una enciclica papale provocava clamore per qualche sua frase o per il messaggio che la ispirava. Quello che più sbalordiva in tali casi era la Chiesa che parlava il linguaggio del mondo, che faceva nomi, che parteggiava per scelte politiche. In quel tempo la stampa raccontava di grandi novità ma era un formidabile ritorno al passato, ai papi che facevano politica direttamente. Oggi ci si è spinti tanto a utilizzare il gergo mondano, politico, ideologico, delle sottoculture, ultimamente anche nelle versioni più corrive, che i pronunciamenti della Chiesa di Roma si spengono in poche ore. Per gli apparati mediatici una «esortazione» è una predica noiosa, meglio, in confronto molto meglio, l’immagine di un cambio d’auto, l’utilitaria sfoggiata in piazza San Pietro con uno strascico di demagogia. Che cosa se ne fa il mondo di queste carezze verbali con il glamour da parrocchia? Se ne impipa. Nel medesimo giorno della Evangelii Gaudium si dava notizia che in Belgio è stata concessa autorità di legge alla eutanasia dei bambini. Nel silenzio del Vicario.

venerdì 22 novembre 2013

L'urlo dei moderni

 ~ CENTOCINQUANTA ANNI FA NASCEVA MUNCH, 
UN PITTORE AL SERVIZIO DELLA MORTE. ~ 
I SUOI QUADRI SEMBRANO INVOCARE L’ESORCISTA ~ 

Con una grande mostra a Genova anche l’Italia Felix partecipa alla commemorazione del triste Edvard Munch. Anche l’Italia cattolica, nei blog dei nostri piccoli kierkegaardiani ecumenici, trepida per la pittura luterana del norvegese, cercando tra quei vizi esistenziali un approdo spirituale. Il mondo intero celebra il sacro dei laici che fuoriesce dalle tele munchiane: la disperazione moderna dell’artista, la mancanza d’ogni conforto, il nulla che sconfina nella follia. Molti cinquecenteschi ancora dentro l’orbe cattolico dipingevano sotto l’influsso di Saturno, ma si confronti l’umor nero di quegli ossessionati manieristi con la tecnica ‘selvaggia’ del pittore moderno, con la drammatica volontà di dire l’indicibile sulla condizione umana piuttosto che ricercare il piacere di costruire immagini. Perfino gli artisti del Nord, pur predisposti al raccapricciante, alle prese cioè con soggetti terribili, riuscivano ancora a trasfigurare il tema in una bella composizione. Che succede invece all’arte nell’epoca dell’ateismo militante? 

Perché un quadro che graffia i sensi più di una forchetta strisciata su un piatto ha suscitato tanta ammirazione per tutto il XX secolo? Perché la livida figura umana ridotta a feto diviene una icona della modernità? Perché insomma L’Urlo, la messa in scena di una manifestazione primordiale, tradotta sulla tela con una certa semplicità (quasi un cartellone propagandistico, con ‘effetti speciali’ da réclame), con il rosso sangue in eccesso, diviene oggetto di culto? Uno storico e filosofo dell’arte più volte citato da questo «Almanacco», l’austriaco Hans Sedlmayr (1896-1981), di fronte al carattere minaccioso di alcune opere moderne volle risalire alle origini segrete di questa arte, mettendone subito in luce l’aspetto diabolico. Non si pensi alle rozze pratiche del satanismo tanto di moda nel Novecento, si tratta – diceva Sedlmayr – delle «immagini di una segreta sofferenza spirituale». Gli incubi di Munch non sarebbero l’espressione di un generico stato di disagio psichico, non si limiterebbero a evocare la morte come certe immagini macabre della pittura barocca, e neppure sarebbero associabili alle fantasie mostruose di Bosch nella seconda metà del Quattrocento. O meglio, qualche parentela con Bosch c’è, l’artista fiammingo contemporaneo dei nostri rinascimentali riprendeva infatti quella tradizione gotica che separava nettamente la luce dalle tenebre e che rappresentava il Cielo e l’Inferno, costringendo comunque la sfera infernale in limiti prestabiliti. Ma, a un certo punto, i limiti dei gotici e di Bosch vennero infranti, segno di una catastrofe cosmica: l’Inferno pareva aver vinto sulle forze celesti e invaso la terra e il cuore degli uomini. L’immagine moderna dell’Inferno, che nasce nel primo Ottocento, già con Goya, è una profezia di quello che sarà il XX secolo. Che cosa vuol dire con tale metafora Hans Sedlmayr? I pittori son forse degli angeli luciferini? 

Riprendiamo alcune pagine della principale opera di Sedlmayr, Perdita del centro (tradotta in italiano da Rusconi), che dissemina quanto meno dei dubbi sulle «magnifiche sorti e progressive» della storia dell’arte. Alle soglie della modernità, al passaggio tra Sette e Ottocento, «nella pittura, nel disegno e nella scultura sorgono tendenze che rinunciano a rappresentare più di quanto in un quadro possa essere visibile. Tutto ciò che viene presupposto come già conosciuto e già pensato – per esempio il trascendente, il mitico, l’allegorico – viene soppresso». Perfino i titoli impediscono che la fantasia di chi contempla i quadri possa evocare quanto va al di là del sensibile: «Ora non esiste più ‘Diana e le ninfe’, ma soltanto ‘Bagnanti’; non esiste più ‘Venere’, ma solo ‘Nudo sdraiato’». L’arte moderna insomma non filtra più il mondo invisibile, non dà forma alle idee, un quadro è un quadro, si resta incatenati alla pura visibilità, parola-chiave dell’epoca moderna. Ma la ‘pura visibilità’ è come la ‘musica assoluta’, la pittura diviene «una musica di superfici colorate astratte». Sarà pure così, si obietterà, ma da qui al trionfo satanico il passo non è affatto breve. E infatti c’è bisogno di qualche altra tappa nella storia dell’arte. Ci stiamo avvicinando a Munch. Sedlmayr riteneva che il pittore norvegese portasse alle estreme conseguenze una rivoluzione artistica apertasi con Goya. «Ogni volta che si approfondisce l’arte di Goya si rafforza l’idea che […] egli appartenga alla schiera dei grandi ‘distruttori’ chiamati a edificare una nuova epoca […]. Per la prima volta un artista rappresenta liberamente e chiaramente il mondo dell’illogicità. Ambedue le serie dei suoi ‘Sogni’ e delle sue ‘Follie’ costituiscono la vera e propria chiave per comprendere non solo le sue opere bensì anche l’essenza dell’arte moderna […]. Una profonda esperienza dell’atmosfera sognante, di tutto ciò che è assurdo, diviene qui, per la prima volta, degna di essere rappresentata […]. Il tema complessivo di questi sogni, la loro sfera, è il mondo dell’orribile, dei dèmoni degli inferi». Si chiarisce così il legame con Munch (confortato anche da un dettaglio biografico dimenticato dai più: a Berlino, nella galleria di Paul Cassirer, patron degli avanguardisti, si tenne una mostra di Munch contrappuntata da quadri di Goya). Dopo Goya, Sedlmayr rifletteva su un altro sinistro predecessore del pittore norvegese: Caspar David Friedrich. Nella sua opera scopriva che «dal rapporto dell’uomo con l’universo è scomparso ogni calore di umanità. La luna, l’entità morta che riflette la luce del sole già tramontato avvolgendo il mondo in un drappo funebre, è il grande simbolo di questo nuovo sentimento universale dell’uomo […]. [Gli sfondi lontani] risvegliano in chi li contempla nostalgia e inquietudine mentre nelle chiare lontananze del mondo barocco noi ci troviamo sempre a nostro agio».

C’è una terza tappa in questa ricostruzione della cavalcata diabolica del moderno, ed è la caricatura che sfigura l’uomo. C’era sempre stata la caricatura come sberleffo della bruttezza umana, un disegno scherzoso nel tempo ozioso dell’artista o ai margini della sua opera, ma dal XVIII secolo in poi è il tema fisso di alcuni pittori e disegnatori (Daumier, per esempio), e l’uomo, «il coronamento della creazione, viene avvilito e abbassato […], l’espressione dell’uomo si muta in una smorfia; egli sembra una caricatura, un aborto, una bestia, uno scheletro, uno spettro, una bambola, un sacco, un automa; appare inoltre brutto, sospetto, informe grottesco, osceno». È facile trovare per ciascuno di questi sostantivi e aggettivi un pittore moderno che lo ha messo al centro della sua opera deformatrice. Meno apparentemente legata a incubi e orrori, la pittura di Cézanne è infine la premessa decisiva di tutta l’arte moderna. «A cominciare da questo momento, il compito della pittura diviene la rappresentazione del mondo così come ‘appare’ alla vista». «È quello stato – nel quale peraltro uno viene raramente a trovarsi – tra il momento in cui ci si sveglia e quello in cui ci si sente completamente desti, e durante il quale solo l’occhio si può dire, è sveglio mentre l’intelletto riposa ancora. Il mondo a noi noto ci appare allora come una compagine di macchie e di forme di vario aspetto, colore, grandezza e consistenza. Gli oggetti che ci sono familiari stanno dietro questo tessuto colorato… dalla raffigurazione del volto umano resta volutamente escluso ogni contenuto sentimentale, come pure l’omogeneità di ogni oggetto visibile, ciò che contrasta in sostanza con tutte le esperienze naturali (una mela, per esempio, ha lo stesso valore fisionomico di un volto) […] la calma dei suoi quadri è una calma priva di vita...». 

A questo punto, lo storico austriaco poteva concludere: «La vicinanza dell’arte alla morte e alla sua agghiacciante atmosfera era stata già notata nella storia dell’arte: essa esisteva cioè in quell’arte anticlassica che viene riassunta nel nome di romanticismo. In essa una sublime concezione della vita, della natura e dell’antichità erompe dagli abissi primordiali. Ma in quella situazione minacciosa si conserva la dignità dell’uomo. Nel romanticismo tedesco (in Gilly [architetto, ‘inventore’ del neogotico, n.d.A.], Beethoven, Kleist, Hölderlin e Novalis come pure in Runge e Friedrich) la vicinanza della morte è umana, è tragica […]. Ma ora, alla coscienza della morte che in mille modi spia ogni essere vivente trasformandolo nella maschera della morte stessa, in un fiore appassito, in una stanza vuota e, perfino, in una natura morta, rappresentati in tutto il loro orrore, si unisce il dubbio angoscioso sulla dignità e l’essenza dell’uomo, sia come dolorosa rinuncia sia come cinica deformazione. Questa vicinanza alla morte non è tragica, ma è infernale. […] L’elemento notturno, pauroso, morboso, molle, morto, putrefatto e sfigurato, il tormentato, dilaniato, ottuso osceno, l’invertito, il meccanico, tutte queste sfumature, attributi e aspetti di ciò che non è umano, si impadroniscono dell’uomo, del suo ambiente familiare della natura e di tutte le sue manifestazioni. Essi trasformano l’uomo in un rudere e in un automa, in un lemure e in una larva, in un cadavere e in uno spettro, in una cimice e in un insetto essi lo dipingono brutale, crudele abbietto, osceno, mostruoso, meccanico». Molti titoli di quadri moderni bastano da soli a «tradire la loro patria interiore: ‘Angoscia’, ‘Città malata’, ‘Città morente’…». Angoscia è un titolo di Munch: molte delle caratteristiche che abbiamo visto nei suoi predecessori riesplodono sulle tele del norvegese, dall’atmosfera sognante alla luna sinistra, dal volto senza contenuto morale alle deformazioni degli umani. 

Riassumiamo allora con Sedlmayr: un’arte del terrificante «esiste come possibilità già agli inizi dell’arte nordica che ha creato sia l’immagine del Cristo sfigurato nella morte (immagine che era sconosciuta all’arte dell’oriente cristiano) sia anche l’immagine dell’inferno. Bosch, Brueghel, Grünewald hanno coltivato questa ricerca del terrificante elevandola al medesimo livello dell’arte trasfiguratrice. Goya ne ha ampliato il campo senza però mai abbandonare quello dell’arte vera e propria. Sulla soglia della nuova arte terrena della morte e dell’inferno stanno alcuni artisti straordinari: Ensor, Munch, Kubin, Schiele». Siamo arrivati a Munch. Abbandoniamo Perdita del centro che ci ha guidato fin qui nelle anticipazioni dell’arte novecentesca dell’ansia, non senza ascoltare il suo ultimo avvertimento: nella direzione di Munch e compagni «si possono fare soltanto pochi passi, oltre i quali si precipita fuori del regno dell’arte». Infatti poco dopo, le avanguardie che a lui si richiamavano, trassero le dovute conseguenze e oltrepassarono i confini loro assegnati da sempre. Entrarono nell’Inferno. 

«Mi impegno come in un dovere orribile a dire la verità: la vita è indicibilmente brutta». Strindberg, che scriveva simili parola, era un altro maestro dei notturni nordici. Dal 1897 in poi, a cominciare da Inferno, appunto, è tutto un susseguirsi di incubi, allucinazioni, fantasticherie oniriche. Egli ebbe un posto di rilievo nel pantheon di Munch, oltre a essere un quasi connazionale (la Norvegia era ancora sottoposta alla corona di Svezia) e un complice nella bohème di gioventù. Strindberg, gloria letteraria della Scandinavia, divulgatore del pensiero di Nietzsche in mezza Europa (e Munch farà il ritrattista postumo, o comunque a distanza, del filosofo), diffonde anche una perversa misoginia che troverà un terreno fertile nel pittore malato di nervi. Per anni Munch dipingerà la donna assassina in primo piano e sullo sfondo l’uomo-vittima e cadavere. Nella stessa epoca, Proust usava le donne come prestanome per autisti omofili. Il culto del femminile, che il cristianesimo aveva imposto nelle culture pagane, arrivava al tramonto. Il Paradiso dantesco risplende di figure femminili, l’Inferno è una potenza maschile, dove vige la condanna del sempre uguale.

«La mia intera vita mi pare spesso che sia stata messa in scena per me». Così parlava Strindberg, mentre il pittore, pensando le stesse cose sul piano dell’arte, concepiva i quadri come pagine di un diario. Pittura autobiografica, secondo le prescrizioni dell’estetica soggettiva che pretende dissolvere l’arte della tradizione. Ci si raccontava senza orpelli, con forme assai semplificate, ma perché mai lo spettatore dovrebbe restarne incantato? Semplicemente per bisogno di uno specchio ustorio delle proprie disgrazie? Vita amarissima, senza luce divina, senza Rivelazione, fu quella di Munch. «Io vivo con i morti», lascerà scritto. Aveva cinque anni quando gli morì la madre di tisi, ed era un ragazzo quando vide la sorellina emettere un fiotto di sangue e morire di tisi. Lutti precoci, senso di abbandono. Le scene di queste morti tornano nei suoi quadri con molte variazioni e un unico tormento. Anche in forma di parole: aveva appena cambiato i nomi e scriveva: «Caro piccolo – dice la sorella nel ricordo – toglimi questo male di dosso; lo vuoi – lei lo guardava supplicante – sì tu lo vuoi. Vedi quella testa là è la Morte…». Duro convivere con la morte senza la speranza viva nella resurrezione cristiana. Nei bui salotti borghesi dell’Europa del Nord, nel vuoto spinto del protestantesimo e dell’agnosticismo, non restavano che i discorsi sulla scienza e i vani riti dello spiritismo. Eppure quanti lutti avvolsero l’esistenza di Alessandro Manzoni senza entrare nelle sue pagine letterarie. Ma adesso la sfrenatezza soggettiva imponeva innumerevoli autoritratti e nelle pose più disparate. Quando si doveva combattere senza una guida, senza più una tradizione, nella estrema solitudine della propria coscienza, secondo quanto consiglia oggi un presule argentino, la battaglia tra Bene e Male, si rischiava (e si rischia) facilmente di essere sedotti da quest’ultimo, soprattutto in quel XX secolo in cui il Satanico si ammantava di vesti estetiche e l’arte dei «poeti maledetti» conquistava anime e corpi. L’arte si alimentava di dati biografici, e lo storico non poteva più metterli tra parentesi come si faceva con gli artisti di altri secoli. Così la critica doveva a sua volta scavare nella vita del pittore. «Dipingo non quello che vedo ma quello che ho visto», ecco l’arte del vissuto. Ma non basta neppure limitarsi a riferire le vicende esteriori, perché «la mia pittura è in realtà un esame di coscienza… una forma di egoismo». Siamo di fronte a una secolare torsione dell’arte verso l’interiorità. Munch e i suoi compagni sono giunti alla mèta. 

Il termine espressione, che un tempo si riferiva alle cose, adesso si lega al cuore umano. Ma questi quadri pre-espressionisti (gli espressionisti tedeschi avranno in Munch il loro Giovanni Battista) vengono sbeffeggiati dal pubblico, non ancora contagiato dal soggettivismo estremo. Si ride istericamente di fronte a temi troppo angosciosi, di fronte a opere che programmaticamente vogliono produrre ansia. La chiameranno arte emozionale, sarebbe il caso di definire bene questa onnipresente ‘emozione’. «Lo spettatore prenderà coscienza di quanto c’è di sacro nei quadri e si sospirerà come in una chiesa»: il pittore moderno, infatti, vuole essere profeta e sacerdote, talvolta pontefice, rifiuta il semplice ruolo dell’artigiano che non dispiacque ai maestri della tradizione. I sommi artisti del passato del resto non si sentivano profeti e pontefici, la religione era ben salda nelle mani dei papi, mentre nell’epoca dell’ateismo ogni artista è celebrante di un qualche culto (i musei sono i nuovi templi). 

Munch cominciò a dipingere da adolescente. Nei suoi quadri mancava la composizione, badava a mettere in vista alcune figure familiari, primi piani un tantino brutali. Lesse la prima traduzione di Delitto e castigo e ne rimase violentemente colpito. Frequentò Strindberg e per anni non si separerà dal ritratto che aveva fatto allo scrittore. Alla scuola antifemminile del drammaturgo dipinse donne colorite e uomini pallidi, smorti. Arrivò a mettere in scena una Vampira. L’arte cospirava contro le donne. In un ciclo pittorico sintetizzò i momenti-chiave della sua vita e i suoi sogni. Intitolò questa specie di fregio Un poema sulla vita, l’amore, la morte. Schopenhauer, nella Filosofia dell’arte, interrogandosi sui limiti espressivi di questa, si arrestava di fronte all’impossibilità di riprodurre il grido, non conosceva il virtuosismo dei moderni: Munch tentò una serie di dipinti dove tornava minaccioso l’Urlo. L’emozione estetica, codificata da Baumgarten come «analogo della ragione», perdeva il suo potere conoscitivo: qui c’era uno «smarrimento nella sensazione». A Berlino fece scandalo con i suoi quadri. Un tempo i grandi suscitavano moti di ammirazione, non scandalo (né si ripeta, per favore, la favoletta su Caravaggio). In ogni caso, non erano tanto i contenuti quanto la tecnica impiegata a provocare reazioni violente nella tradizione. Alcolismo e malattia mentale entrarono prepotentemente nella vita del pittore. Molti i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, disgrazia che cominciava a essere una medaglia sui petti avanguardisti. Il suo «istinto barbaro» sedusse i tedeschi del Die Brücke. Morì mentre la Germania espressionista, tragica deforme e urlante conquistava il Nord Europa. 

La volontà degli artisti di usare i toni puri, «direttamente usciti dal tubetto» coincide con uno sconvolgimento tecnico: la comparsa dei colori industriali già bell’e pronti. Ricorda Jean Clair che nel 1868 «viene realizzata in laboratorio la prima sintesi artificiale della tintura rossa, l’alizarina, che sostituirà via via la tintura naturale estratta dalla robbia.[…] La scomparsa della sua coltura implicava allo stesso tempo la rottura con tutta una civiltà, l’interruzione di un legame antropologico che durava da secoli tra il nostro occhio e il colore rosso così come si trovava in natura. La cessazione della sua produzione equivaleva quindi a un trauma, a uno sradicamento delle origini essenziali, telluriche, ctonie con cui si era identificata per millenni l’arte di dipingere, di rappresentare, di colorare». In poco tempo al rosso artificiale si aggiunsero tutti gli altri colori. L'eclissi di Dio si accompagnava all'eclissi della natura. Clair ricorda anche che «nel 1885 lo stesso anno in cui Van Gogh dipingeva alcune delle sue tele dai colori più violenti, il fisico Maxwell stabiliva il principio dei cerchi cromatici che riduceva il fenomeno delle sensazioni colorate alla combinazione di tre colori primari, l’azzurro, il verde e il rosso: principio, si sa, tutt’ora valido nelle tecnologie più avanzate, ad esempio il video a colori».

Non a caso è un oculista sensibile ai problemi della percezione visiva a essere uno dei primi collezionisti di Munch. Eppure Munch non inventa molto nel campo dei colori, utilizza con furore le invenzioni degli impressionisti e dei simbolisti. Certo, il suo cromatismo violento è lontano dal mondo gioioso e solare degli impressionisti come dalle visioni eleganti dei simbolisti. Anzi si era spalancato un abisso con i mondani visionari della Ville Lumière, adesso i pittori degli incubi predicavano un nuovo, atroce, «misticismo», o forse lo confondevano con l’allucinazione.