sabato 28 settembre 2013

Mistero doloroso

~ MALATTIE SCANDALOSE, PECCATI SCANDALOSI 
~ QUANDO LA SOLA BONARIETÀ NON AIUTA ~

L’altro giorno, il 23 settembre, in una piazza del centro storico di Roma si celebrava la festa di san Pio da Pietrelcina. Finita la processione, davanti a una folla di devoti (vecchi e malati soprattutto, audience poco appetibile per i postmoderni, stupore misto a scherno nello sguardo dei modaioli in bicicletta che passavano lì accanto), il parroco della chiesa organizzatrice, che possiede varie reliquie del frate delle stigmate, ricordava con tormento che nella mattinata avevano affidato a Padre Pio i piccoli pazienti del reparto oncologico del Bambin Gesù, i bambini malati di cancro. Il povero prete, visibilmente turbato da questo mistero dolorosissimo, benediceva i malati, tutti i malati, con la reliquia del taumaturgo moderno. Quando non si sa più a chi bussare, quando lo scandalo della malattia infantile sconvolge la ragione, ci si rivolge a quel frate d’altri tempi, sofferente come Cristo in croce, che continuava a sanguinare anche dopo il Concilio, che continuava a dir messa in latino anche dopo il Concilio; un ‘ideologo’, secondo l’espressione sprezzante dell’Argentino nella ormai celebre intervista. Ma i fedeli dolenti sanno distinguere tra una star mediatica e uno che sanguina. Chi sente vicina la minaccia della morte non sa che farsene dei consigli di «Repubblica» e del suo glamour, delle trovate laiche degli interlocutori delle lettere papali (ma tutti e due, quello in carica e l’emerito, si scelgono personaggi davvero cheap, il gioco è fin troppo facile, almeno Benedetto XIV scriveva a Voltaire). 

Quando capiterà, e capiterà a tutti, anche ai cattolici adulti, di trovarsi di fronte al giudizio divino – un’altra faccenda di cui non si parla più, neppure nelle alte sfere della gerarchia – serviranno a poco le chiacchiere sulla bontà generica, le teologie della liberazione o le più moderate teologie del popolo, le feste della pace, i dialoghi tra le religioni. Forse correrà in nostro soccorso un frate inattuale, ancora lui, che amava i più scandalosi peccatori e che diceva di voler restare sulla soglia del Paradiso fino alla fine dei tempi per fare anche nell’aldilà il nostro avvocato, per strappare l’ultimo suo fedele alla pena eterna. Al vescovo gesuita che teme il confessionale come «camera di tortura» da cui vuole liberarsi quanto prima, contrapponendogli un’assoluzione leggera e indolore, qualcuno, per pietà, racconti di Padre Pio e del suo modo di confessare. 

Chi da bambino ebbe la grazia d’incontrarlo può testimoniare come il tragico sacerdote che soffriva nel sacrificio della messa, il vecchio con il volto corrucciato da profeta che allontanava i curiosi dal tempio, poi nel chiostro si mostrava benefico e allegro santo meridionale. Costretto dal suo ufficio sacerdotale a ricordare le proibizioni del Vangelo (sì, ci sono anche queste, e nette) come la severità del Giudice (che Cristo stesso mise in evidenza in varie parabole che oggi si definirebbero crudeli), a evocare i misteri dolorosi come quelli gaudiosi, era al contempo misericordioso e implorante pietà, per l'anima e per il corpo, molto sensibile ai corpi e ai loro malanni, alla miseria fisica che è più tremenda di quella economica, rigoroso con gli errori umani e benigno con gli uomini e le donne che aveva di fronte. Un santo sa che cosa è il peccato e conosce la debolezza del peccatore, perché è uno che sa che cosa è il dolore, perciò è pronto ad assolvere, a sciogliere cioè dai lacci maligni. Chi invece cancella il peccato dal paesaggio moderno, chi lo considera il retaggio di divieti arcaici, riduce il dolore a uno scherzo da oratorio, gli toglie significato. 

Nessun peccatore dignitoso vorrà essere assolto senza processo al male che ha in sé, nessuno troverà vero conforto nelle parole generiche degli indulgenti. Non ci si sazia delle banalità, nel mancato atto di giustizia resta più profonda l’inquietudine. Perfino nel sesso c’è un elemento di sofferenza, di ansia: se viene appiattito, pacificato, lo si priva pure di quel risvolto spirituale. Chi è consapevole del suo male non si accontenta del placebo, né vuole sentirsi dire che si tratta soltanto di una influenzina. Ecco perché da ogni parte del mondo – in tempi non ancora propizi ai viaggi – si accorreva in quel villaggio nel deserto del Gargano e ci si metteva in fila secondo l’ordine di prenotazione per inginocchiarsi al confessionale di padre Pio. Non ci si andava per sentir ripetere formule mielose, per essere consolati in modo ipocrita, il frate anzi si arrabbiava, talvolta gridava, giudicava in nome di Dio e perdonava in nome di Dio. La compassione che assicurava forse discendeva anche dal dolore delle sue ferite sanguinanti.

sabato 21 settembre 2013

Devozioni moderne

~ IL FILOSOFO MARXISTA E IL PAPA POP ~
 
Nel trionfo dell’esistente, della piattezza piccolo borghese, dell’apologia dei peccatucci di provincia, del perdono totale, un ‘condono tombale’ come dice il fisco, che cancella il senso del peccato (Simenon in confronto è un profondo teologo morale), della misericordia ridotta a sentimentalismo (attraverso un’intervista, Dio Padre diventa un patetico Dio Nonna), mentre si vuole trasformare Roma in una periferia del mondo mercificato, conviene allontanarsi per un po’ da una discussione così degradata, cercare un riparo dal vocio deprimente (c’è chi ha scambiato la missione evangelica con la mania aziendalistica dell’audience).

Roma è la capitale della forma, la Chiesa di Roma mette i punti fermi attraverso il dogma; al contrario, certi personaggi paiono conoscere soltanto l’emotività, il sentimento cieco, il buonsenso curialesco, il vezzo appunto in-formale, perciò non è fatuo andare a curiosare tra i vecchi nemici del mondo contemporaneo, tra chi nutre ancora rispetto per l’oggettività, tra gli ostinati non-riconciliati, tra coloro cioè che non riconoscono la legittimità di un simile universo ridicolo: un colto pensatore marxista può risultare più interessante di un papa pop (come lo chiama una nostra amica), che ogni giorno fa da eco alle vacuità mondane. 

Il nostro marxista, interessato all’«antimondo» e all’«antistoria», ci parla di uno spazio ‘profetico’ del cattolicesimo. Per lui la Chiesa di Roma assolve una importantissima funzione: quella «di trattenere la modernità, di ritardare l’accelerazione dello sviluppo» (Intervista a Tronti, Quel circolo di sacro e secolare, «il manifesto», 29 aprile 2005). Antropologicamente ormai si pone un problema molto serio a livello planetario – sostiene il filosofo materialista –, vale a dire il contrasto fra una accelerazione sempre più vertiginosa «del tempo nella produzione, nei consumi, nelle comunicazioni, nell’uso di massa della tecnologia, e i tempi umani che non riescono ad assorbirla, fanno fatica a starle dietro, con tutte le conseguenze che ben conosciamo in termini di comportamenti di massa: assunzione superficiale dell’innovazione, accettazione leggera di tutto quello che passa il mercato, acquisizione volgare del benessere e della ricchezza». Ora, nell’«acquisizione volgare del benessere» non c’è forse quel riprendere i peggiori vizi del liberalismo? Non è il mercato e la sua unica legge – senza più interrogarsi su amore e desiderio (e magari anche sui feti da eliminare) – a imporsi anche nel più intimo della persona? L’«accettazione leggera» di ogni ‘perversione’, dimenticando il senso del peccato, già assolto in una specie di tutto compreso, non è la più servile remissività al mercato? 

Il pensatore marxista ritiene che spetterebbe anzitutto alla sua parte politica di «farsi carico di questa contraddizione invece di mettersi al seguito della corsa», invece cioè di rincorrere sempre e comunque il nuovo che avanza, senza mai preoccuparsi di «trattenere» qualcosa, di «ritardare» per l’appunto «l’accelerazione dello sviluppo» su tutti i piani della vita storica individuale e collettiva». A maggior ragione, aggiungiamo noi, la Chiesa di Roma dovrebbe ben guardarsi dal partecipare alla corsa all’aggiornamento, mostrando in tal modo di vergognarsi di quello scarto che è la sua gloria. 

«Il religioso – dice il filosofo – è un bisogno umano, legato alla imperfezione, alla fragilità e transitorietà di noi esseri terreni, è una dimensione eterna con cui bisogna fare i conti» (Intervista a Mario Tronti, in «Il giornale di filosofia», 2 agosto 2008). Invece i cattolici progressisti vogliono costantemente fare i conti con quanto prescrive il mercato culturale, come se l’eternità fosse in continuo ritardo sulle voghe passeggere, rovesciando dunque l’ordine in una serie di paradossi grotteschi. Il marxista arriva allora a considerare la Chiesa post-conciliare come una istituzione che cede costantemente alla modernità sua nemica, che lascia svuotare la fede dalla tecnologia massmediatica. 

È strano dover leggere proprio sull’«Unità» delle sagge riflessioni come queste: «La Chiesa sente su di sé il morso dei tempi nuovi [..] Il Concilio in fondo è il nuovo episodio di un antico rapporto, controverso: quello tra Chiesa e modernità. Una storia lunga, con luci e ombre, più ombre che luci. Lo stesso Novecento, il secolo della modernità in crisi, ne aveva dato drammatica rappresentazione. Il contesto però a quel punto è inedito. Il Moderno sta arrivando in mezzo al popolo. […] Nel Concilio la lotta fra tradizionalisti e innovatori fu frontale, con la vittoria, bisogna dire, di questi ultimi, come si può vedere dalla maggior parte dei documenti conciliari. Semmai, le mediazioni al ribasso vennero nel dopo-Concilio. […] Il problema di oggi, a cinquant’anni di distanza, è valutarne gli esiti e darne un giudizio disincantato. Difficile dirne in poche battute. La mia impressione è che ci fu un di più di subalternità rispetto all’onda modernizzante e secolarizzante allora potentemente in atto, e da allora poi dilagante in forme sempre più antropologicamente devastanti». Devastanti più che mai gli esiti se il «vescovo di Roma» agita i temi imposti dalla rozzezza dei massmedia. 

Così «l’aderire passivamente a una pura esigenza di aggiornamento dell’istituzione» pare correre dietro «non alla modernità, ma a quella sua deriva che è venuta avanti come cosiddetto postmoderno». E «chi non coglie nel Moderno il segno tragico, che lo attraversa, sempre, chi ci vede soltanto uno strumento di sviluppo per la storia della salvezza, chi non ne riconosce le aporie, le contraddizioni drammatiche, fino a capire come nel progresso si nasconda il ritorno del sempre eguale, non vede lontano, si fa prigioniero di un presente effimero, e innesca senza volerlo ingovernabili percorsi di decadenza. È accaduto in vari campi. Il campo ecclesiale non ne è rimasto immune». 

Non si tratta solo dell’onnipotenza del mercato, ci sono pure le conseguenze di questa sugli umani: «ma – ecco un grande tema culturale di oggi – viene riprodotta in maniera allargata da un vecchio apparato ideologico radicaleggiante, falsamente libertario, di stampo neo-borghese progressista, che separa libertà da responsabilità e così crea guasti forse irrimediabili soprattutto nella formazione umana delle giovani generazioni». Benedetto XVI appariva all’autore dell’articolo la voce di colui che, «per chi sa intendere, detta, a volte contro la sua Chiesa, un messaggio teologico di rigore etico, di cui oggi si sente gran bisogno, accanto e ben oltre il rigore economico, consiglia uno stile di austerità nei comportamenti, individuali e sociali, sfugge opportunamente nei linguaggi a ogni posa da grande comunicatore» (M. Tronti, Venne la Riforma. Ma restano difficili i conti col Moderno, «l’Unità», 7 ottobre 2012). Ovvero, tutte quelle forme che sono ora dissolte dall’uragano argentino abbattutosi nella «vigna del Signore»..

sabato 7 settembre 2013

Ci vuole un santo

~ GIUSEPPE PREZZOLINI CRITICO DEL CONCILIO ~ 

Giuseppe Prezzolini è stato un protagonista dell’altro secolo, italiano eccentrico ma così scettico da autoconsiderarsi un «italiano inutile». Deluso e miscredente, si occupò anche di religione, assai colpito dalla sua secolarizzazione. Conservatore che si atteneva ai fatti, non avrebbe capito questa voga etica che travolge oggi l’Italia politica. Il tradimento di Machiavelli gli sarebbe apparso un inganno di qualche nuovo potente più furbo. O forse una ondata di religiosità laica, di bigottismo infondato, nel vuoto della religione cattolica. Il giudizio cupo sulla natura umana (corrotta in sé, altro che le piccole reciproche corruzioni che tanto turbano i nostri contemporanei) gli derivava, oltre che dal carattere, dal realismo italico dei migliori teorici politici e dei migliori letterati e artisti del Belpaese. Un tale pessimista non poteva non tenere in massima considerazione la Chiesa di Roma che predicava, come unica via d’uscita, i precetti evangelici e il rispetto del magistero, onde arginare la stoltezza che regna sulla terra. Naturale dunque che, quando l’ultimo Concilio prese ad adulare l’umanità, accettandone tutti i difetti e promettendo, invece della salvezza nell’aldilà, un benessere sindacale quaggiù, Prezzolini si irritasse pur dialogando serratamente con papa Paolo VI. Una volta, quasi centenario, si recò perfino in Vaticano per polemizzare con il pontefice nei Sacri Palazzi Apostolici, senza tuttavia convertirsi ai ragionamenti montiniani. Fu invitato allora a scrivere sull’«Osservatore Romano», nell’edizione meno ufficiale del supplemento della domenica, e lui elencò i motivi di disaccordo. Aveva in testa un cristianesimo eroico e vedeva Gesù come il «dispregiatore di tutti i valori sociali». Da molti decenni prima del Concilio, si diceva convinto che «la funzione della Chiesa è di consolare e di assolvere i pentiti, non di animare i rivoltosi e di sognare la pace universale in terra». Su questo Leitmotiv montiniano, Prezzolini ironizzava sommessamente: non ci si batte per la pace – obiettava al papa –, per volerla davvero basta arrendersi al nemico, consegnargli tutte le armi e rimettersi alla sua clemenza. 

Sul tema «povertà», che pare tornare di gran moda oltretevere, lo scrittore non si lasciava confondere: «Gesù era contrario alle ricchezze», ammetteva, ma forse, si interrogava retoricamente, il Messia voleva fare «dei poveri altrettanti semiricchi come pretendono i cristiani democratici di oggi? Essi vogliono togliere i poveri dalla povertà come se questa fosse un peccato, e mediante provvedimenti di legge. Ora Gesù considerava la povertà come una distinzione del cielo. L’ideale piccolo borghese dell’operaio e del contadino moderatamente benestante, che finisce la vita tra gli agi di una pensione, credo che sarebbe stata una situazione poco gradita a Gesù». 

Nell’articolo che provocò poi l’approfondimento sull’«Osservatore», scriveva della sua meraviglia per la scelte di fondo del Concilio: «guardando storicamente le cose, la Chiesa cattolica ha passato momenti assai più brutti del presente», perché allora i reverendi padri conciliari si sono «mostrati impazienti come una ciurma che sente il bastimento in pericolo e si affretta a buttare la zavorra in mare, che è poi quella che ha tenuto il bastimento in equilibrio»? Un’altra domanda cruciale: «Ma dove se ne andrà la verità assoluta il giorno in cui la Chiesa riconoscerà la libertà di coscienza? Se tutti han diritto di credere come il loro spirito dentro detta, tutte le Chiese sono uguali, e quindi nessuna è assolutamente vera». 

Sul giornale vaticano scriveva senza troppi giri di pensiero della soverchia importanza, a suo parere, data dalla Chiesa ai cambiamenti teorici: «un santo, un sacerdote caritatevole, un poeta ispirato dalla coscienza religiosa sono più importanti di molte affermazione, riduzioni, modificazioni del culto, dell’abito, della dottrina ecclesiastica». Facile profeta, proseguiva: «La Chiesa sul terreno sociale e politico sarà sempre battuta da chi offre meglio e di più. Le dottrine del giusto prezzo, del salario sufficiente, del trattamento paterno non hanno valore scientifico; e sono meno radicali di quelle comuniste, che soddisfano di più l’istinto egualitario…». Le teologie della liberazione, peggio che mai nella versione moderata con cui si ripresentano da qualche mese alla ribalta, sembrano richiamarsi all’angusto ‘vorrei ma non posso’.

Il Grande Pessimista allora non salvava niente? Si divertiva soltanto a demolire la Chiesa attuale come in altri tempi avrebbe demolito quella tridentina? No, qualche punto fermo c’era. Già l’abbiamo visto invocare un santo, perché i fedeli hanno bisogno della mediazione dei santi non della pedagogia di un catechismo verbosissimo e terribilmente vicino ai luoghi comuni dell’opinione pubblica. Nel breve scritto finale del libro da dove abbiamo tratto queste citazioni (Cristo e/o Machiavelli, Rusconi, 1971), Prezzolini indica in positivo quel che ci vuole, fa un nome: «Per mantenere la fede non occorre un nuovo Catechismo, come i teologi olandesi han compilato; quello che occorre è l’esempio di una vita differente (grazie alla fede) da quella degli altri uomini. Mi sia permesso di dire che ha fatto più per la fede padre Pio da Pietrelcina che il cardinale Alfrink». Per la cronaca, quest’ultimo fu un porporato olandese divorato dalla fede progressista.

martedì 3 settembre 2013

La Dama del lusso rituale

~ CRISTINA CAMPO E FRANCESCO DI SALES:
LA SANTITÀ DELLE BUONE MANIERE ~

In un ritrattino abbozzato per la sua Galleria di grandi dame, Pietro Citati provava a effigiare Cristina Campo per coloro che la videro solo in fotografia (a suo parere, traditrice di quel singolare volto bianco e ascetico). L’«anacoreta» con «garbo mondano» – secondo il chiaroscuro di cui si serve l’autore – è una figura chiave del cattolicesimo della fine Novecento, quando la Chiesa pareva inchinarsi al mondo, presa da una sordida passione per l’attualità. Confondendo il fasto mondano con il dominio di Satana, gettava tra i rifiuti le più preziose reliquie della tradizione mentre si sottometteva ai riti mortiferi dell’Onu, alle futilità delle polemiche politiche, all’effimero dei giornali, al decalogo dei diritti dell’Ottantanove, alla spazzatura di una stagione editoriale, giù fino alla ripetizione, ancora oggi, delle parole stralunate imposte dalla moda, per cui la gaiezza diventa simbolo della sodomia (espressione del Vescovo di Roma in concitate chiacchiere con giornalisti). Vedere i rappresentanti di Cristo spogli della aurea bellezza liturgica (che è riflesso del cielo), ma proni di fronte alla trivialità del mondo, suscita brividi. Dove è finito quel disgusto cristiano per il secolo? L’ultimo Concilio aveva prescritto in modo ossessivo e poco evangelico l’«apertura al mondo» invece di fare barriera al principato temporale. Non era più il compromesso mosso dal realismo romano, era una resa incondizionata, l’oblio del significato ultimo dei Vangeli. Ora, va bene che il cattolico ama tutta la creazione, frutto della generosità divina, anche le realtà più ripugnanti come «Sorella Morte corporale», ma fissarsi esclusivamente sullo stato cadaverico o sulla fotografia sociologica (un po’ si somigliano) è semplicemente un abbaglio, forse un vizio. Cristina reagiva a simili depravazioni culturali come una cavaliera ardente. Citati attribuiva l’eroismo della sua amica al «senso acutissimo della forma, come quasi nessuno ai nostri tempi». È per questo disinteresse infatti che il cattolicesimo crollava: veniva meno quella forma che era stata la sua anima. Aveva appena fatto in tempo a pronunciarne l’elogio, nel secolo XX, il filosofo del diritto Carl Schmitt, nel suo Cattolicesimo romano e forma politica, che quella forma si decomponeva, vittima degli espressionismi spirituali che soffiavano da tutti i nord della terra. Il diamante bimillenario, con la sua «superiorità formale», che pure sapeva incarnarsi «nell’esistenza concreta» (Schmitt), pareva frantumarsi. Il Grande Stile che aveva accompagnato la Chiesa di Roma lungo i secoli non esisteva più. Il giurista di Plettenberg fu così longevo da assistere al drammatico crollo, e sul tema borbottò assai in privato, ma non ebbe la forza di scrivere un’opera definitiva. Restava la sua Römischer Katholizismus und politische Form ad ammaestrare intorno a quello che aveva rappresentato per duemila anni la Chiesa di Roma su questa terra, e vi aggiungeva nel 1970 Politische Theologie II, un trattato che distruggeva la piccola politica dei preti ribelli (e dei piccoli laici), irridendo la leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, liquidazione che tanto rallegrava la gauche ecclesiastica, beata della sua demitizzazione. 

Nel silenzio degli ultimi giganti, non restavano dunque che le controversie delle gazzette, facili a scivolare nel confronto destra/sinistra o, peggio, vecchi/giovani, come in un teatro di operetta. La grazia di Cristina Campo concesse allora un privilegio, una squisita indulgenza alla cultura cattolica declinante, un piccolo miracolo nell’Italia chiassosa del tempo che parodiava i furori della guerra civile dei padri, la brutalità del Sud America in fiamme. Questa «dama della Fronda», che esce dal ritratto di Citati «spiritosa e tagliente, amabile e crudele, piena di tatto e di violenza», ma anche «spossata» per le sue battaglie religiose, senza mai ambire a indossare i panni scuri della teologa, anzi sempre frivola e brillante, «alle volte, pensava a una religione che non nascesse contro il mondo, ma nel cuore stesso del mondo: che germogliasse, come nei libri di san Francesco di Sales, dalle forme perfette del vivere mondano. Pensava che le ‘buone maniere’, le ‘belle parole’, la ‘sprezzatura’ e la ‘naturalezza’ della società civile fossero la via migliore per arrivare alla santità». Stiamo leggendo una interpretazione di Citati, accennata nel suo Ritratti di donne, del 1992, e costruita su importanti dettagli che l’autore ha disseminato nel dipinto: «La vita mondana era gesto e la santità non era che gesto assoluto, che riassumeva in sé tutti i gesti belli e squisiti della nostra vita terrena». Lo si sottoscrive volentieri anche per l’impressionante assonanza con certe pagine di Hofmannsthal, una gloria letteraria del cattolicesimo. Educato nel «cerimoniale ecclesiastico», il viennese seppe, attraverso questa disciplina della forma, resistere alla fede nell’arte come salvezza. Insomma, il catechismo della esteriorità, il protocollo del rito, purificò anche l’arte dalle tante crudezze che l’esistenzialismo vi immetteva. In esergo alla sua opera, Hofmannsthal aveva posto una frase di Gregorio di Nissa: «L’amante della suprema bellezza, ritenendo ciò che aveva visto quasi un’immagine di ciò che non aveva visto ancora, aspirava a goderne l’originale medesimo». Il fasto permette di staccarsi dalle miserie umane, di conservare un’autonomia dallo spirito del tempo, dai tristi figuri delle tirannie, dai guerriglieri travestiti da messia, dal materialismo dei banchieri e dei socialisti. L’etimologia lo fa derivare da un verbo sanscrito che sta per ‘osare’, mostrare audacia, ardire. Il fasto è allora segno di coraggio, immagine gloriosa della dignitas che permette di parlare all’umanità con prestigio e influenza. La ricchezza spirituale deve avere una immagine facilmente percepibile, deve essere solennemente visibile, abbagliante come il sole. Avrebbe accondisceso anche un sommo pontefice del peso di Gregorio Magno: «Solo conservando per gli uomini alcune delle gioie del mondo, li condurrete più facilmente ad apprezzare le gioie dello spirito». Un fatto di armonia, anzitutto. 

Il disprezzo per il mondo diventava, per l’autrice degli Imperdonabili, lo sprezzo dell’inferno moderno, del macchinismo che uccide quanto di più nobile ci sia sulla terra, dell’orgoglio ridicolo degli arconti; il culto della forma liturgica, la bellezza della precisione rituale, era la scala che conduceva alla perfezione, alla santità. Dovremmo ricorrere, tutti noi che veneriamo lo splendore del rito, alla protezione di François de Sales, che convertiva i protestanti in nome della bellezza e dell’eleganza intellettuale; e non è questione di Grand Siècle e di ambienti ginevrini, nella Puglia più arcaica, padre Pio sanguinava in piedi per celebrare una messa interminabile dove ogni passaggio sconfinava nell’eternità, dove il cerimoniale del sacrificio risultava più superbo di ogni coreografia angelica. 

Peccato che all’acuto critico sfugga un particolare che avvalorerebbe più che mai la sua ipotesi sulla santità mondana di Cristina. Sottolineando l’amore per le forme belle, quasi l’accusa di un’insensibilità per il calco, per la Gerusalemme celeste, tutta presa com’era per Bisanzio, per «lo splendore delle pietre, della luce delle vesti, dell’esattezza sovrana dei gesti immodificabili [...], l’odore paradisiaco degli incensi». Già, era evidente, proprio a partire dall’incenso, dai profumi metafisici, che per la donna crociata della ‘messa in latino’ non c’era contrasto tra la Gerusalemme celeste e Bisanzio, tra il Paradiso e una chiesa qualsiasi su questa terra, dove si cerca d’essere, attraverso la rigorosa osservanza liturgica, specchio dell’aldilà, specchio del Dio incarnato, sommo sacerdote che celebra il rito eterno. La frase di Gregorio di Nissa, citata da Hofmannsthal, illumina sulla essenza della liturgia: la copia non rimanda all'estetica dell’antiquariato, accende invece un gioco di corrispondenze con l’originale, stabilisce le affinità simboliche, consacra il mondo, fa intravedere un anticipo di Paradiso.