venerdì 15 febbraio 2013

Dalla parte del dogma


~ ASPETTANDO LA SEDE VACANTE
IN COMPAGNIA DI GIRARD E DI STEINER ~

Spregiudicati i ‘progressisti’ che, un po’ per furbizia, un po’ per abitudine a piegarsi a ogni evento mediatico, si appassionano adesso del papa teologo da loro tanto avversato e si impadroniscono del suo gesto triste. In un attimo viene rovesciato il trend degli ultimi tempi. A mezzo secolo di distanza dal Concilio giovanneo, lo si stava rivedendo con meno ossequio alle ‘novità’ che sempre incantano i nostri contemporanei, si mettevano grossi interrogativi su alcuni aspetti, se ne incrinava il culto ridicolo, lo si risistemava – Ratzinger in primis – nella tortuosa e bimillenaria storia della Chiesa, sottraendolo così a quella sua presunzione d’essere origine assoluta dell’autentico cristianesimo dopo secoli di equivoci (scontato peccato d’ogni eresia del nuovo inizio, dell’«anno zero», del calendario riscritto…), era in corso insomma un processo di demitizzazione quando in un inimmaginabile contropiede lungo appena un giorno gli anti-tradizionalisti segnano un gol decisivo che dovrebbe assicurar loro la vittoria per i prossimi secoli. Così almeno lo presentano esultanti: un definitivo abbandono della differenza cattolica, un appiattimento sulle banalità del mondo, un colpo mortale alla sacralità del corpo. Ma è davvero andato in tale modo? Benedetto ha rinnegato un fondamentale del cattolicesimo? Questa è la vulgata imposta dalla cosiddetta pubblica opinione. Qualcuno però si occupa di contrapporre un briciolo di verità a tali arbitrarie sentenze? È mai possibile che il magistero ecclesiastico sia riconducibile al riflesso degli editoriali e delle battute nel foro televisivo o per la rete elettronica, nel migliore dei casi alle conferenze-stampa dei ‘portavoce’? Il diritto canonico sarà dunque fondato d’ora in poi sulla giurisprudenza giornalistica? sugli elzeviri dei vaticanisti? l’ermeneutica giuridica si nutrirà dei boatos? Una intervista radiofonica ad Hans Küng definirà il ministero petrino che mezzo secolo fa l’intervistato aveva in animo di abolire? Si ridurrà la missione del vicario di Cristo alle nomine bancarie dello Ior, facendo credere che, come nella politica italiana, è solo una faccenda di soldi e di tasse? Chi risponderà a questo fiume di sproloqui cui si aggiungono le parole vane ma concise dei cinguettii in voga? i fedeli preoccupati? i romani che si sentono abbandonati dal loro sovrano? i poveri blogger che si richiamano alla tradizione benché sconfortati dagli eventi di questi giorni? Dove è la parola autorevole nella sede vacante già spalancata?

I dogmi, non l’opinione pubblica ammantata di falso profetismo, sostanziano la Chiesa cattolica. Se non si osservano più i dogmi si può sciogliere l’impresa, mandare a casa i cardinali, privarli delle loro sontuose porpore. E ci vuole coraggio a difendere i dogmi di fronte al tribunale delle folle twittanti o degli apologeti melliflui del Vaticano II con il loro linguaggio ‘pastorale’ che non vuol sentire parlare di punti fermi, che celebra l’impressionismo teologico, l’espressionismo mistico, il flusso delle coscienze. Quel coraggio lo ha mostrato Joseph Ratzinger, prima come prefetto del Sant’Uffizio, come defensor fidei, poi come pontefice, e metteva paura a tutti loro il suo rigore. Cosa intendono allora per ‘coraggio’ gli impauriti di ieri quando elogiano in modo infingardo il gesto di Benedetto?

Questo Almanacco ha ricordato una volta come in un libro di René Girard dell’inizio del terzo millennio, La pietra dello scandalo (Adelphi), il pensatore francese dialogando con Maria Stella Barberi a proposito delle calunnie su Pio XII, dicesse: «Del resto si tratta delle stesse motivazioni che guidano le polemiche scatenate contro il cardinale Ratzinger. La terribile dittatura del cardinale Ratzinger! Per caso lei l’ha mai incontrato? M. S. B. – Credo di averlo incontrato nelle condizioni ideali. Aveva appena dato una conferenza alla Sorbona, e quello che ricordo di lui è soprattutto la sua forza intellettuale. R. G. – È un uomo dotato, e di modi estremamente piacevoli, ma per certi Americani è peggio di Eichmann, Goebbels e Stalin messi insieme. Si rende conto del coraggio che devono avere uomini nella sua posizione per opporsi al mondo intero, e rendersi impopolari ricordando ai teologi cattolici che ci sono dei limiti oltrepassati i quali non ci si può più dire legittimamente cattolici. Ratzinger non è nelle condizioni di imporre nulla a nessuno, dal momento che nessuno può essere costretto a restare nella Chiesa contro la sua volontà. Il cardinale non fa che ripetere ciò che la Chiesa ha sempre detto. Egli esprime anche la sua inquietudine rispetto a quello che vede ovunque, e questo meriterebbe qualche riflessione…». Sì, è proprio vero, ha ragione Girard, tutto ciò meriterebbe varie riflessioni, a maggior ragione dopo l’acclamazione dei ‘laici’, degli avversari convertiti repentinamente, dei denigratori del «pastore tedesco» dipinto finora come un cane di guardia dell’ortodossia. Non si dimentichi che prima ancora di essere eletto papa il professor Ratzinger suscitava la più profonda avversione dei luogocomunisti di tutto il mondo, gazzettieri e accademici, vescovi e politicanti, trasformatasi in un istante, la mattina dell’undici febbraio 2013, in una ammirazione untuosissima e ripugnante.

Ai loro orecchi era suonata scandalosa l’idea ratzingeriana della continuità del Concilio con l’intera storia della Chiesa. Se infatti tale ipotesi del teologo bavarese vanificava le congetture dei più radicali tra i conservatori usi a considerare il Vaticano II come un colpo di mano dei traditori di Roma, allo stesso tempo immiseriva l’orgoglio dei fedelissimi di costituzioni, decreti e vari documenti conciliari, dalle prose fumose anni Sessanta benché ancora in latino, zeppe di sociologismi e di cultura franco-tedesca. E tanto più si accanivano contro papa Benedetto in quanto conoscevano la storia del giovane perito Joseph Ratzinger giunto a San Pietro per sorreggere con la sua dottrina le acrobazie teologico-politiche degli innovatori nell’assemblea conciliare, e altresì sapevano che anche lui aveva provato il gusto apocalittico della distruzione del vecchio mondo, della visione di una terra senza più mare, secondo l’annuncio del profeta di Patmos, onde la barca di Pietro si veniva a trovare insabbiata e lo stesso timoniere rieducato, more Rivoluzione culturale cinese, alle procedure collettive. Con fervore di cuore, limpidezza di intenti, severità di studi e confronto con tutto quanto la cultura novecentesca andava offrendo nei suoi picchi inebrianti, vuoti d’aria compresi, senza i limiti della Pascendi né dell’Index librorum prohibitorum né delle titubanze che avvolgevano la formazione nei seminari ecclesiastici appena una generazione prima, il giovane Ratzinger si era preparato a offrire rispettosa attenzione alle correnti intellettuali più distanti dal cristianesimo. Ma in questo difficile compito di conciliare cattolicesimo e modernità che aveva impegnato il seminarista e poi il teologo di fama, il futuro papa si accorse strada facendo della assoluta mancanza di rispetto che c’era nella Chiesa post-conciliare per la tradizione, maxime sul versante liturgico. Accadde altrettanto a teologi considerati profeti e protagonisti dell’assise conciliare, come per esempio Jean Daniélou, che si guardarono smarriti di fronte alle rovine della Chiesa di Roma. Lo stesso Maritain, principale ispiratore del Concilio, sembrò perdere la grande speranza che lo aveva accompagnato nel disegno vagamente hegeliano – un Hegel in chiave cattolica – di una Chiesa sintesi di Medioevo e Modernità. Finché perfino Paolo VI, che quel Concilio aveva guidato, si mise a denunciare la presenza di Satana nella Chiesa aggiornata. Allora il nostro teologo, con germanica correttezza, cominciò a prendere atto della persecuzione verso la tradizione cattolica a partire dal rito romano antico, idest gregoriano-tridentino, cancellato brutalmente da un giorno all'altro, ragion per cui il professor Ratzinger diventava un sospetto reazionario agli occhi dei suoi compagni di un tempo. Lo studioso che pur padroneggiando le filosofie moderne non idolatrava quelle più ostili al messaggio evangelico – come accadeva ai teologi dell’ovvietà, ai vergognosi del proprio cristianesimo, a coloro che amano a tal punto i loro nemici da invaghirsi di Belzebù, ai passionisti della comunicazione, agli invidiosi dei laici, agli emuli dei politici – un tale ‘resistente’ alla secolarizzazione totale doveva apparire uno strano animale. Colui che osava sfidare il relativismo imperante, l’unica religio che accomuna la vecchia Europa e colonizza gli altri mondi, che ammalia le masse con la sua tolleranza apparente, con il buonsenso senza intelligenza, un sì audace predicatore risultava per forza inattuale, irritante nel suo sfuggire alle cadenze abituali. Ieri, nel finale del suo papato, Benedetto tornava su questo punto-chiave, distingueva tra un Concilio virtuale – inventato dai media e creduto autentico – e un Concilio reale, dimenticato o equivocato. C’era da rimuovere quella falsa dottrina diffusa dalle gazzette e intanto, mentre il vecchio pontefice si doleva per non essere all’altezza della battaglia che attende i cattolici, le medesime gazzette celebravano la modernizzazione del papato, l’ultima puntata del Concilio virtuale, almeno per ora, ché c’è ancora da dissolvere la fede cattolica nello scetticismo totale, far morire la Chiesa e mercificare definitivamente corpi e vita.

Questo lo scontro in atto. Con molto garbo, come ricordava Girard, Ratzinger difende il dogma. Ecco perché la Roma senza papa, pur essendo ancora vivo il papa, suscita oscure apprensioni: nel chiasso mediatico si intravede la Roma senza più dogma. Qualcuno direbbe: c’è il caos satanico. Non si tratta di un pavido e superstizioso tradizionalista, bensì di un sommo erudito del nostro tempo, un ebreo, George Steiner. Naturalmente non parla da teologo, si limita a ricordare da fine lettore: «i decreti esplicativi e legislativi pronunciati da Roma e dai custodi dell’ortodossia nella Parigi medioevale, la clausura dottrinaria e metafisica della Summa di Tommaso d’Aquino possono essere compresi come un tentativo di mettere un punto ‘finale’ ermeneutico. Proclamano essenzialmente che il testo primario può significare questo e questo, ma non quello. Le equazioni che collegano la comprensione razionale e l’autorità esplicativa alla rivelazione sono complesse ma alla fine possono essere risolte. È lecito quindi definire il dogma come una punteggiatura ermeneutica, come la promulgazione di un blocco semantico. L’eternità ortodossa è esattamente l’opposto della revisione e del commento di un’interpretazione senza fine. Nella fede, nella logica e nella grammatologia scolastiche (come più tardi in Hegel), l’eternità è una forma ordinata e chiusa. Ciò che non ha fine è caos satanico» (Real Presences, trad. it. Garzanti 1992).

In mancanza di lumi ecclesiastici, ce ne stiamo in compagnia di René Girard e di George Steiner, in modo da astrarci dalle forsennate insulsaggini dei giornali. Steiner del resto ha spesso invitato a diffidare del linguaggio come strumento positivo di comunicazione. Lui non è ingenuo come i pretini che si accendono per twitter, sa bene, lo ha imparato alla scuola di Scholem, della demonicità dei media, soprattutto quando la forma si scompone.