lunedì 18 marzo 2013

Le scimmie del rito

~ IL FEDELE E LO SPETTATORE
SECONDO IGOR STRAVINSKIJ ~

Le Sacre du Printemps ha cento anni. All’inizio del secolo scorso, il sacro, questo termine assai ambiguo portato trionfalmente in scena dagli antropologi, conquistava l’arte profana ma, per fortuna dei primi novecenteschi, la sacra liturgia era ancora ben salda, non confondibile con le copie empie, nonostante Wagner. In quel tempo, gli artisti si volevano sacerdoti e rubavano al rito, soprattutto cattolico. Nell’ultimo mezzo secolo invece anche la liturgia si è messa a rubacchiare alle miserabili rappresentazioni dei profani. Igor Stravinskij, autore del Sacre (il balletto che mostrava i sacrifici umani dei pagani), aveva chiara coscienza di tale confusione, correva l’anno 1935, e scriveva in Cronache della mia vita questa pagina illuminante:

«Non voglio parlare della musica di Parsifal, né di quella di Wagner in generale; oggi è troppo lontano da me. In tutta questa faccenda ciò che mi disgusta è lo spirito elementare che l’ha dettata, il principio stesso di collocare uno spettacolo d’arte sullo stesso piano dell’azione sacra e simbolica che costituisce il servizio religioso. In verità questa commedia di Bayreuth, col suo ridicolo cerimoniale, non è forse una semplice scimmiottatura incosciente del rito sacro?

Mi si contrapporranno forse i misteri del Medioevo. Tali manifestazioni avevano però come base la religione e come sorgente la fede. Per il loro spirito non si allontanavano dal seno della Chiesa che, anzi, le proteggeva. Si trattava di cerimonie religiose al margine dei riti canonici, e se presentavano qualità estetiche, esse erano solo un elemento accessorio e involontario che non ne ledeva la sostanza. Queste cerimonie erano dovute al bisogno imperioso dei fedeli di vedere gli oggetti della loro fede incarnati in modo tangibile, a quello stesso bisogno che creò nelle chiese le immagini e le statue.

Sarebbe veramente ora di finirla, una volta per tutte, con questa inetta e sacrilega concezione dell’arte come religione e del teatro come tempio. L’assurdità di questa misera estetica può essere agevolmente dimostrata col seguente argomento.
Non si può immaginare un fedele che assuma una attitudine critica di fronte all’uffizio divino. Vi sarebbe contradictio in adjecto, il fedele cesserebbe di essere fedele. L’atteggiamento dello spettatore è esattamente opposto; esso non è condizionato né dalla fede, né dalla cieca sottomissione. A teatro si ammira o si respinge; ciò richiede innanzi tutto un giudizio; non si accetta se non dopo aver giudicato; anche incoscientemente. Il senso critico ha dunque una parte essenziale. Confondere questi due ordini di idee, significa dar prova di mancanza assoluta di discernimento oltre che di cattivo gusto. Ci si può forse stupire di una simile confusione ai nostri tempi in cui la trionfante laicità, col degradare dei valori spirituali e con l’avvilire il pensiero umano, ci conduce irrimediabilmente a un totale abbrutimento? Si direbbe tuttavia che ci si renda conto del mostro che il mondo sta per partorire; si constata, con dispetto, che l’uomo non potrebbe vivere senza un culto. Allora si tenta di raffazzonarne qualcuno ricavato dal vecchio arsenale rivoluzionario, e con ciò si crede di far concorrenza alla Chiesa!» (traduzione di Albero Mantelli, Feltrinelli, 1979, pp.40-41).