mercoledì 14 agosto 2013

Estate

~ RIDIAMO DELL’APOCALISSE LAICA ~

Talvolta negli ultimi secoli, nelle cicliche crisi dell’ottimismo, le chiacchiere salottiere, anche senza più salottini e tinelli, riecheggiano sempre più l’Apocalisse e come in tutte le traduzioni laiche si tratta di copie rozze, che riprendono le tinte principali del Libro di Patmos tralasciando le sfumature, mancano dell’intervento divino, della regia suprema, promettono una spiegazione che non ha bisogno di enigmi e di simboli, alla luce del più prosaico utilitarismo. La fine del mondo - dicono - sarebbe prossima per via delle esalazioni moderne della terra ma per assicurarsi la sopravvivenza del globetto basta sacrificare dei miliardi di dollari a gloria di un’economia impalpabile, che non dà pane agli affamati, dedicata a corrucciati dèi della pioggia e della siccità. Questo assicurano i laici. Il sistema pare reggersi su ricordi e rimpianti oggi corroborati dalle cifre offerte dai computer, calcoli commissionati e orientati da un sentimentalismo nostalgico. Perfino un osservatore acuto come il conte Lorenzo Magalotti, scienziato fiorentino del Seicento, inciampò in un simile trompe-l’oeil ordito dal Tempo: «Egli è pur vero che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi son più, e in questo smarrimento di confini non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre che in sua gioventù a Roma, la mattina di Pasqua di Resurrezione ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno di impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quello ch’ei portava nel cuor dell’inverno» (dalla XXVIII delle Lettere familiari). Giacomo Leopardi ebbe buon gioco e infilzarlo nel suo Zibaldone: «Il vecchio laudator temporis acti se puero, non contento delle cose umane, vuol che anche le naturali fossero migliori nella sua fanciullezza e gioventù, che dipoi. La ragione è chiara, cioè che tali gli parevano allora; che il freddo lo notava e gli si faceva sentire infinitamente meno eccetera eccetera. Del resto non ha molt’anni che le nostre gazzette, sulla fede dei nostri vecchi, proposero come nuova nuova ai fisici la questione del perché le stagioni a’ nostri tempi sieno mutate d’ordine; e ciò da alcuni fu attribuito al taglio de’ boschi del Sempione eccetera eccetera. Quello che tutti noi sappiamo, e che io mi ricordo bene, è che nella mia fanciullezza il mezzogiorno d’Italia non aveva anno senza grosse nevi, e che ora non ha quasi anno con nevi che durino più di poche ora. Così dei ghiacci ed insomma del rigore dell’inverno. E non però che io non senta il freddo adesso assai più che da piccolo».

Leopardi ci torna sopra in altro passo, riaprendo la polemica con il segretario dell’Accademia del Cimento: «… questo scriveva il Magalotti in data del 1683. L'Italia sarebbe più fredda oramai che la Groenlandia, se da quell’anno a questo, fosse venuta continuamente raffreddandosi a quella proporzione che si raccontava allora». Il buonsenso mandava in fumo le ipotesi dello scienziato fiorentino, mentre il letterato delle Rimembranze spiegava: «Si può considerare che i vecchi pospongono il presente al passato, non solo nelle cose che dipendono dall’uomo, ma ancora in quelle che non dipendono, accusandole similmente di essere peggiorate, non tanto, com’è il vero, in essi e verso di essi, ma generalmente e in se medesime. Io credo che ognuno si ricordi avere udito da’ suoi vecchi più volte, come mi ricordo io da’ miei, che le annate sono divenute più fredde che non erano, e gl’inverni più lunghi; e che, al tempo loro, già verso il dì di pasqua si solevano lasciare i panni dell’inverno, e pigliare quelli della state; la qual mutazione oggi, secondo essi, appena nel mese di maggio, e talvolta di giugno, si può patire. E non ha molti anni, che fu cercata seriamente da alcuni fisici la causa di tale supposto raffreddamento delle stagioni, ed allegato da chi il diboscamento delle montagne, e da chi non so che altre cose, per ispiegare un fatto che non ha luogo: poiché anzi al contrario è cosa, a cagione d’esempio, notata da qualcuno per diversi passi d’autori antichi, che l'Italia ai tempi romani dovette essere più fredda che non è ora. […] Ma i vecchi, riuscendo il freddo all’età loro assai più molesto che in gioventù, credono avvenuto alle cose il cangiamento che provano nello stato proprio, ed immaginano che il calore che va scemando in loro, scemi nell’aria o nella terra». Sono pagine note, riportate in auge da storici e letterati in tempi recenti senza che giornali e lettori ne  ottenessero grosso giovamento: i vecchi equivoci sui segni della fine del mondo si riaffacciano a ogni stagione.

Più sintetica la citazione fatale che ridicolizza per l’eternità il tono apocalittico dei laici. La si legge nel Dizionario di Flaubert, in appendice al libro dei due copisti, il romanzo sul grande mistero della opinione pubblica, allegro glossario che spegne il sensazionalismo delle gazzette e demolisce le chimeriche opinioni: «Estate. Un’estate è sempre ‘eccezionale’, che faccia caldo o freddo secco o umido». Si veda anche la voce Inverno: «Sempre ‘eccezionale’ (cfr. Estate)».