venerdì 22 novembre 2013

L'urlo dei moderni

 ~ CENTOCINQUANTA ANNI FA NASCEVA MUNCH, 
UN PITTORE AL SERVIZIO DELLA MORTE. ~ 
I SUOI QUADRI SEMBRANO INVOCARE L’ESORCISTA ~ 

Con una grande mostra a Genova anche l’Italia Felix partecipa alla commemorazione del triste Edvard Munch. Anche l’Italia cattolica, nei blog dei nostri piccoli kierkegaardiani ecumenici, trepida per la pittura luterana del norvegese, cercando tra quei vizi esistenziali un approdo spirituale. Il mondo intero celebra il sacro dei laici che fuoriesce dalle tele munchiane: la disperazione moderna dell’artista, la mancanza d’ogni conforto, il nulla che sconfina nella follia. Molti cinquecenteschi ancora dentro l’orbe cattolico dipingevano sotto l’influsso di Saturno, ma si confronti l’umor nero di quegli ossessionati manieristi con la tecnica ‘selvaggia’ del pittore moderno, con la drammatica volontà di dire l’indicibile sulla condizione umana piuttosto che ricercare il piacere di costruire immagini. Perfino gli artisti del Nord, pur predisposti al raccapricciante, alle prese cioè con soggetti terribili, riuscivano ancora a trasfigurare il tema in una bella composizione. Che succede invece all’arte nell’epoca dell’ateismo militante? 

Perché un quadro che graffia i sensi più di una forchetta strisciata su un piatto ha suscitato tanta ammirazione per tutto il XX secolo? Perché la livida figura umana ridotta a feto diviene una icona della modernità? Perché insomma L’Urlo, la messa in scena di una manifestazione primordiale, tradotta sulla tela con una certa semplicità (quasi un cartellone propagandistico, con ‘effetti speciali’ da réclame), con il rosso sangue in eccesso, diviene oggetto di culto? Uno storico e filosofo dell’arte più volte citato da questo «Almanacco», l’austriaco Hans Sedlmayr (1896-1981), di fronte al carattere minaccioso di alcune opere moderne volle risalire alle origini segrete di questa arte, mettendone subito in luce l’aspetto diabolico. Non si pensi alle rozze pratiche del satanismo tanto di moda nel Novecento, si tratta – diceva Sedlmayr – delle «immagini di una segreta sofferenza spirituale». Gli incubi di Munch non sarebbero l’espressione di un generico stato di disagio psichico, non si limiterebbero a evocare la morte come certe immagini macabre della pittura barocca, e neppure sarebbero associabili alle fantasie mostruose di Bosch nella seconda metà del Quattrocento. O meglio, qualche parentela con Bosch c’è, l’artista fiammingo contemporaneo dei nostri rinascimentali riprendeva infatti quella tradizione gotica che separava nettamente la luce dalle tenebre e che rappresentava il Cielo e l’Inferno, costringendo comunque la sfera infernale in limiti prestabiliti. Ma, a un certo punto, i limiti dei gotici e di Bosch vennero infranti, segno di una catastrofe cosmica: l’Inferno pareva aver vinto sulle forze celesti e invaso la terra e il cuore degli uomini. L’immagine moderna dell’Inferno, che nasce nel primo Ottocento, già con Goya, è una profezia di quello che sarà il XX secolo. Che cosa vuol dire con tale metafora Hans Sedlmayr? I pittori son forse degli angeli luciferini? 

Riprendiamo alcune pagine della principale opera di Sedlmayr, Perdita del centro (tradotta in italiano da Rusconi), che dissemina quanto meno dei dubbi sulle «magnifiche sorti e progressive» della storia dell’arte. Alle soglie della modernità, al passaggio tra Sette e Ottocento, «nella pittura, nel disegno e nella scultura sorgono tendenze che rinunciano a rappresentare più di quanto in un quadro possa essere visibile. Tutto ciò che viene presupposto come già conosciuto e già pensato – per esempio il trascendente, il mitico, l’allegorico – viene soppresso». Perfino i titoli impediscono che la fantasia di chi contempla i quadri possa evocare quanto va al di là del sensibile: «Ora non esiste più ‘Diana e le ninfe’, ma soltanto ‘Bagnanti’; non esiste più ‘Venere’, ma solo ‘Nudo sdraiato’». L’arte moderna insomma non filtra più il mondo invisibile, non dà forma alle idee, un quadro è un quadro, si resta incatenati alla pura visibilità, parola-chiave dell’epoca moderna. Ma la ‘pura visibilità’ è come la ‘musica assoluta’, la pittura diviene «una musica di superfici colorate astratte». Sarà pure così, si obietterà, ma da qui al trionfo satanico il passo non è affatto breve. E infatti c’è bisogno di qualche altra tappa nella storia dell’arte. Ci stiamo avvicinando a Munch. Sedlmayr riteneva che il pittore norvegese portasse alle estreme conseguenze una rivoluzione artistica apertasi con Goya. «Ogni volta che si approfondisce l’arte di Goya si rafforza l’idea che […] egli appartenga alla schiera dei grandi ‘distruttori’ chiamati a edificare una nuova epoca […]. Per la prima volta un artista rappresenta liberamente e chiaramente il mondo dell’illogicità. Ambedue le serie dei suoi ‘Sogni’ e delle sue ‘Follie’ costituiscono la vera e propria chiave per comprendere non solo le sue opere bensì anche l’essenza dell’arte moderna […]. Una profonda esperienza dell’atmosfera sognante, di tutto ciò che è assurdo, diviene qui, per la prima volta, degna di essere rappresentata […]. Il tema complessivo di questi sogni, la loro sfera, è il mondo dell’orribile, dei dèmoni degli inferi». Si chiarisce così il legame con Munch (confortato anche da un dettaglio biografico dimenticato dai più: a Berlino, nella galleria di Paul Cassirer, patron degli avanguardisti, si tenne una mostra di Munch contrappuntata da quadri di Goya). Dopo Goya, Sedlmayr rifletteva su un altro sinistro predecessore del pittore norvegese: Caspar David Friedrich. Nella sua opera scopriva che «dal rapporto dell’uomo con l’universo è scomparso ogni calore di umanità. La luna, l’entità morta che riflette la luce del sole già tramontato avvolgendo il mondo in un drappo funebre, è il grande simbolo di questo nuovo sentimento universale dell’uomo […]. [Gli sfondi lontani] risvegliano in chi li contempla nostalgia e inquietudine mentre nelle chiare lontananze del mondo barocco noi ci troviamo sempre a nostro agio».

C’è una terza tappa in questa ricostruzione della cavalcata diabolica del moderno, ed è la caricatura che sfigura l’uomo. C’era sempre stata la caricatura come sberleffo della bruttezza umana, un disegno scherzoso nel tempo ozioso dell’artista o ai margini della sua opera, ma dal XVIII secolo in poi è il tema fisso di alcuni pittori e disegnatori (Daumier, per esempio), e l’uomo, «il coronamento della creazione, viene avvilito e abbassato […], l’espressione dell’uomo si muta in una smorfia; egli sembra una caricatura, un aborto, una bestia, uno scheletro, uno spettro, una bambola, un sacco, un automa; appare inoltre brutto, sospetto, informe grottesco, osceno». È facile trovare per ciascuno di questi sostantivi e aggettivi un pittore moderno che lo ha messo al centro della sua opera deformatrice. Meno apparentemente legata a incubi e orrori, la pittura di Cézanne è infine la premessa decisiva di tutta l’arte moderna. «A cominciare da questo momento, il compito della pittura diviene la rappresentazione del mondo così come ‘appare’ alla vista». «È quello stato – nel quale peraltro uno viene raramente a trovarsi – tra il momento in cui ci si sveglia e quello in cui ci si sente completamente desti, e durante il quale solo l’occhio si può dire, è sveglio mentre l’intelletto riposa ancora. Il mondo a noi noto ci appare allora come una compagine di macchie e di forme di vario aspetto, colore, grandezza e consistenza. Gli oggetti che ci sono familiari stanno dietro questo tessuto colorato… dalla raffigurazione del volto umano resta volutamente escluso ogni contenuto sentimentale, come pure l’omogeneità di ogni oggetto visibile, ciò che contrasta in sostanza con tutte le esperienze naturali (una mela, per esempio, ha lo stesso valore fisionomico di un volto) […] la calma dei suoi quadri è una calma priva di vita...». 

A questo punto, lo storico austriaco poteva concludere: «La vicinanza dell’arte alla morte e alla sua agghiacciante atmosfera era stata già notata nella storia dell’arte: essa esisteva cioè in quell’arte anticlassica che viene riassunta nel nome di romanticismo. In essa una sublime concezione della vita, della natura e dell’antichità erompe dagli abissi primordiali. Ma in quella situazione minacciosa si conserva la dignità dell’uomo. Nel romanticismo tedesco (in Gilly [architetto, ‘inventore’ del neogotico, n.d.A.], Beethoven, Kleist, Hölderlin e Novalis come pure in Runge e Friedrich) la vicinanza della morte è umana, è tragica […]. Ma ora, alla coscienza della morte che in mille modi spia ogni essere vivente trasformandolo nella maschera della morte stessa, in un fiore appassito, in una stanza vuota e, perfino, in una natura morta, rappresentati in tutto il loro orrore, si unisce il dubbio angoscioso sulla dignità e l’essenza dell’uomo, sia come dolorosa rinuncia sia come cinica deformazione. Questa vicinanza alla morte non è tragica, ma è infernale. […] L’elemento notturno, pauroso, morboso, molle, morto, putrefatto e sfigurato, il tormentato, dilaniato, ottuso osceno, l’invertito, il meccanico, tutte queste sfumature, attributi e aspetti di ciò che non è umano, si impadroniscono dell’uomo, del suo ambiente familiare della natura e di tutte le sue manifestazioni. Essi trasformano l’uomo in un rudere e in un automa, in un lemure e in una larva, in un cadavere e in uno spettro, in una cimice e in un insetto essi lo dipingono brutale, crudele abbietto, osceno, mostruoso, meccanico». Molti titoli di quadri moderni bastano da soli a «tradire la loro patria interiore: ‘Angoscia’, ‘Città malata’, ‘Città morente’…». Angoscia è un titolo di Munch: molte delle caratteristiche che abbiamo visto nei suoi predecessori riesplodono sulle tele del norvegese, dall’atmosfera sognante alla luna sinistra, dal volto senza contenuto morale alle deformazioni degli umani. 

Riassumiamo allora con Sedlmayr: un’arte del terrificante «esiste come possibilità già agli inizi dell’arte nordica che ha creato sia l’immagine del Cristo sfigurato nella morte (immagine che era sconosciuta all’arte dell’oriente cristiano) sia anche l’immagine dell’inferno. Bosch, Brueghel, Grünewald hanno coltivato questa ricerca del terrificante elevandola al medesimo livello dell’arte trasfiguratrice. Goya ne ha ampliato il campo senza però mai abbandonare quello dell’arte vera e propria. Sulla soglia della nuova arte terrena della morte e dell’inferno stanno alcuni artisti straordinari: Ensor, Munch, Kubin, Schiele». Siamo arrivati a Munch. Abbandoniamo Perdita del centro che ci ha guidato fin qui nelle anticipazioni dell’arte novecentesca dell’ansia, non senza ascoltare il suo ultimo avvertimento: nella direzione di Munch e compagni «si possono fare soltanto pochi passi, oltre i quali si precipita fuori del regno dell’arte». Infatti poco dopo, le avanguardie che a lui si richiamavano, trassero le dovute conseguenze e oltrepassarono i confini loro assegnati da sempre. Entrarono nell’Inferno. 

«Mi impegno come in un dovere orribile a dire la verità: la vita è indicibilmente brutta». Strindberg, che scriveva simili parola, era un altro maestro dei notturni nordici. Dal 1897 in poi, a cominciare da Inferno, appunto, è tutto un susseguirsi di incubi, allucinazioni, fantasticherie oniriche. Egli ebbe un posto di rilievo nel pantheon di Munch, oltre a essere un quasi connazionale (la Norvegia era ancora sottoposta alla corona di Svezia) e un complice nella bohème di gioventù. Strindberg, gloria letteraria della Scandinavia, divulgatore del pensiero di Nietzsche in mezza Europa (e Munch farà il ritrattista postumo, o comunque a distanza, del filosofo), diffonde anche una perversa misoginia che troverà un terreno fertile nel pittore malato di nervi. Per anni Munch dipingerà la donna assassina in primo piano e sullo sfondo l’uomo-vittima e cadavere. Nella stessa epoca, Proust usava le donne come prestanome per autisti omofili. Il culto del femminile, che il cristianesimo aveva imposto nelle culture pagane, arrivava al tramonto. Il Paradiso dantesco risplende di figure femminili, l’Inferno è una potenza maschile, dove vige la condanna del sempre uguale.

«La mia intera vita mi pare spesso che sia stata messa in scena per me». Così parlava Strindberg, mentre il pittore, pensando le stesse cose sul piano dell’arte, concepiva i quadri come pagine di un diario. Pittura autobiografica, secondo le prescrizioni dell’estetica soggettiva che pretende dissolvere l’arte della tradizione. Ci si raccontava senza orpelli, con forme assai semplificate, ma perché mai lo spettatore dovrebbe restarne incantato? Semplicemente per bisogno di uno specchio ustorio delle proprie disgrazie? Vita amarissima, senza luce divina, senza Rivelazione, fu quella di Munch. «Io vivo con i morti», lascerà scritto. Aveva cinque anni quando gli morì la madre di tisi, ed era un ragazzo quando vide la sorellina emettere un fiotto di sangue e morire di tisi. Lutti precoci, senso di abbandono. Le scene di queste morti tornano nei suoi quadri con molte variazioni e un unico tormento. Anche in forma di parole: aveva appena cambiato i nomi e scriveva: «Caro piccolo – dice la sorella nel ricordo – toglimi questo male di dosso; lo vuoi – lei lo guardava supplicante – sì tu lo vuoi. Vedi quella testa là è la Morte…». Duro convivere con la morte senza la speranza viva nella resurrezione cristiana. Nei bui salotti borghesi dell’Europa del Nord, nel vuoto spinto del protestantesimo e dell’agnosticismo, non restavano che i discorsi sulla scienza e i vani riti dello spiritismo. Eppure quanti lutti avvolsero l’esistenza di Alessandro Manzoni senza entrare nelle sue pagine letterarie. Ma adesso la sfrenatezza soggettiva imponeva innumerevoli autoritratti e nelle pose più disparate. Quando si doveva combattere senza una guida, senza più una tradizione, nella estrema solitudine della propria coscienza, secondo quanto consiglia oggi un presule argentino, la battaglia tra Bene e Male, si rischiava (e si rischia) facilmente di essere sedotti da quest’ultimo, soprattutto in quel XX secolo in cui il Satanico si ammantava di vesti estetiche e l’arte dei «poeti maledetti» conquistava anime e corpi. L’arte si alimentava di dati biografici, e lo storico non poteva più metterli tra parentesi come si faceva con gli artisti di altri secoli. Così la critica doveva a sua volta scavare nella vita del pittore. «Dipingo non quello che vedo ma quello che ho visto», ecco l’arte del vissuto. Ma non basta neppure limitarsi a riferire le vicende esteriori, perché «la mia pittura è in realtà un esame di coscienza… una forma di egoismo». Siamo di fronte a una secolare torsione dell’arte verso l’interiorità. Munch e i suoi compagni sono giunti alla mèta. 

Il termine espressione, che un tempo si riferiva alle cose, adesso si lega al cuore umano. Ma questi quadri pre-espressionisti (gli espressionisti tedeschi avranno in Munch il loro Giovanni Battista) vengono sbeffeggiati dal pubblico, non ancora contagiato dal soggettivismo estremo. Si ride istericamente di fronte a temi troppo angosciosi, di fronte a opere che programmaticamente vogliono produrre ansia. La chiameranno arte emozionale, sarebbe il caso di definire bene questa onnipresente ‘emozione’. «Lo spettatore prenderà coscienza di quanto c’è di sacro nei quadri e si sospirerà come in una chiesa»: il pittore moderno, infatti, vuole essere profeta e sacerdote, talvolta pontefice, rifiuta il semplice ruolo dell’artigiano che non dispiacque ai maestri della tradizione. I sommi artisti del passato del resto non si sentivano profeti e pontefici, la religione era ben salda nelle mani dei papi, mentre nell’epoca dell’ateismo ogni artista è celebrante di un qualche culto (i musei sono i nuovi templi). 

Munch cominciò a dipingere da adolescente. Nei suoi quadri mancava la composizione, badava a mettere in vista alcune figure familiari, primi piani un tantino brutali. Lesse la prima traduzione di Delitto e castigo e ne rimase violentemente colpito. Frequentò Strindberg e per anni non si separerà dal ritratto che aveva fatto allo scrittore. Alla scuola antifemminile del drammaturgo dipinse donne colorite e uomini pallidi, smorti. Arrivò a mettere in scena una Vampira. L’arte cospirava contro le donne. In un ciclo pittorico sintetizzò i momenti-chiave della sua vita e i suoi sogni. Intitolò questa specie di fregio Un poema sulla vita, l’amore, la morte. Schopenhauer, nella Filosofia dell’arte, interrogandosi sui limiti espressivi di questa, si arrestava di fronte all’impossibilità di riprodurre il grido, non conosceva il virtuosismo dei moderni: Munch tentò una serie di dipinti dove tornava minaccioso l’Urlo. L’emozione estetica, codificata da Baumgarten come «analogo della ragione», perdeva il suo potere conoscitivo: qui c’era uno «smarrimento nella sensazione». A Berlino fece scandalo con i suoi quadri. Un tempo i grandi suscitavano moti di ammirazione, non scandalo (né si ripeta, per favore, la favoletta su Caravaggio). In ogni caso, non erano tanto i contenuti quanto la tecnica impiegata a provocare reazioni violente nella tradizione. Alcolismo e malattia mentale entrarono prepotentemente nella vita del pittore. Molti i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, disgrazia che cominciava a essere una medaglia sui petti avanguardisti. Il suo «istinto barbaro» sedusse i tedeschi del Die Brücke. Morì mentre la Germania espressionista, tragica deforme e urlante conquistava il Nord Europa. 

La volontà degli artisti di usare i toni puri, «direttamente usciti dal tubetto» coincide con uno sconvolgimento tecnico: la comparsa dei colori industriali già bell’e pronti. Ricorda Jean Clair che nel 1868 «viene realizzata in laboratorio la prima sintesi artificiale della tintura rossa, l’alizarina, che sostituirà via via la tintura naturale estratta dalla robbia.[…] La scomparsa della sua coltura implicava allo stesso tempo la rottura con tutta una civiltà, l’interruzione di un legame antropologico che durava da secoli tra il nostro occhio e il colore rosso così come si trovava in natura. La cessazione della sua produzione equivaleva quindi a un trauma, a uno sradicamento delle origini essenziali, telluriche, ctonie con cui si era identificata per millenni l’arte di dipingere, di rappresentare, di colorare». In poco tempo al rosso artificiale si aggiunsero tutti gli altri colori. L'eclissi di Dio si accompagnava all'eclissi della natura. Clair ricorda anche che «nel 1885 lo stesso anno in cui Van Gogh dipingeva alcune delle sue tele dai colori più violenti, il fisico Maxwell stabiliva il principio dei cerchi cromatici che riduceva il fenomeno delle sensazioni colorate alla combinazione di tre colori primari, l’azzurro, il verde e il rosso: principio, si sa, tutt’ora valido nelle tecnologie più avanzate, ad esempio il video a colori».

Non a caso è un oculista sensibile ai problemi della percezione visiva a essere uno dei primi collezionisti di Munch. Eppure Munch non inventa molto nel campo dei colori, utilizza con furore le invenzioni degli impressionisti e dei simbolisti. Certo, il suo cromatismo violento è lontano dal mondo gioioso e solare degli impressionisti come dalle visioni eleganti dei simbolisti. Anzi si era spalancato un abisso con i mondani visionari della Ville Lumière, adesso i pittori degli incubi predicavano un nuovo, atroce, «misticismo», o forse lo confondevano con l’allucinazione.