venerdì 10 gennaio 2014

Gli altri gesuiti

~ OLTRE GLI SCHEMI DEL GIORNALISMO
SUI BUONI E I CATTIVI NELLA CATHOLICA ~

Per grazia divina il cattolicesimo, benché fondato sui dogmi, non è un monolite, non si adegua per sua natura al pensiero unico. L’osservatore esterno evoca i gesuiti trascinando una catena di luoghi comuni. Tutti tolleranti, abili nel compromesso, i machiavellici del papa, tutti a invocare la clemenza assoluta e a nascondere il giudizio irato di Dio, a camuffare perfino l’Inferno. Tutti arrendevoli con l’avversario, disponibili alla resa sia pure per salvare il salvabile. Con parole attuali, insomma, sempre progressisti e addirittura spesso di sinistra, quanto meno riformisti. Questo «Almanacco» ha recentemente raccontato la paradigmatica missione in Cina della Compagnia nel Cinque-Seicento, nel post-concilio tridentino dunque, e ha ritirato fuori la faccenda a bella posta, affinché non si disperasse dell’avvenire della Chiesa per dei motivi contingenti. Ovverossia a causa della distruzione subitanea delle antiche regole per opera di un supremo pastore venuto dall’Argentina, il primo gesuita a salire sul trono di Pietro contro le regole della Societas che vietano anche il titolo vescovile (ma Bellarmino fu cardinale e a fine Novecento la nouvelle théologie gesuitica fu rivestita di porpora). Insomma, se ne videro in vari secoli di simili travagli per la Chiesa, la navicella resta miracolosamente a galla. Però i giornalisti semplificano in modo esagerato: è un gesuita, tranquilli, lo schema prevede una evangelizzazione tartufesca, rientra nella norma, si è sempre visto così nella storia del loro ordine, di che v’allarmate? Come se Iňigo l’hidalgo, il fondatore, il basco tenace, fosse annoverabile tra i pacifici pronti alla trattativa. Ancora trentenne, Ignazio il gentiluomo affidava l’onore soltanto alla spada. A caccia di eretici, appena a Roma, denunciò alle autorità un illustre agostiniano per sospetto luteranesimo.

Come se i gesuiti non fossero stati i cavalieri dell’ortodossia. E anche la longa manus di Roma che si impadroniva delle menti e dei cuori dei sovrani del mondo per renderli sottomessi al potere petrino (i sovrani del mondo ottenendo però, un brutto giorno, lo scioglimento della Compagnia ignaziana). Crociati sempre all’attacco, come don Chisciotte quando le crociate erano già state abbandonate da secoli. Non si arresero mai. Mandata a casa la Compagnia, qualcuno entrò perfino nella loggia massonica pur di salvaguardare l’organizzazione al servizio del papa, senza cedere allo spirito dei tempi.

Come se poi in America Latina non avessero tentato di civilizzare gli indios che praticavano il cannibalismo, ben altra carta da quella giocata nella raffinatissima Cina, proteggendoli comunque dal potere politico con il quale spesso si scontrarono armi alla mano (si veda le cosiddette Reducciones in Paragauy). Come se nell’Ottocento non fossero stati gli abili difensori delle ragioni del potere temporale di Roma contro i «risorgimenti» dello sciovinismo, diventando in tal modo l’oggetto della denigrazione di Vincenzo Gioberti e dei cattolici liberali. Da qui la secolare diffamazione durata fino all’avvento dell’Argentino. Se negli ultimi tempi «La Civiltà Cattolica» è diventata una rivista da sbandierare per gli allegri demolitori della tradizione cattolica, va ricordato che essa fu un baluardo contro il modernismo. Lo stesso nome del mensile smentiva gli eccessi dell’inculturazione. Nel secolo primo della modernità, il XIX dell’èra cristiana, la rivista chiamava a raccolta contro i liberali. Furono i suoi redattori gesuiti a lanciare il «Sillabo», il Concilio Vaticano I, quella assise cioè che affermò l’infallibilità papale, la restaurazione della filosofia tomistica, la restaurazione in generale. Nel Novecento «La Civiltà Cattolica» si impelagò qua e là anche con discutibili politiche pur di tenere a bada liberalismi e socialismi internazionali. Uno come padre Messineo orientò da destra i cattolici italiani e prese di mira Jacques Maritain che pure si era formato sul cattolicesimo medioevale e aveva militato nell’Action française. Per oltre un secolo, i teorici della inculturazione si scatenavano su quelle pagine in una virulenta polemica antigiudaica. Difesero il generalissimo Franco e si batterono contro la Germania nazista.

Negli anni Quaranta, confratello di padre Michel de Certeau, che salvava pure Freud, e di padre Hans Urs von Balthasar che nutriva qualche dubbio sulle masse di dannati all’Inferno, era l’americano di origine irlandese padre Leonard Feeney, che sosteneva essere la salvezza una esclusiva dei battezzati secondo il rito di Santa romana Chiesa, annunciando per tutti gli altri le fiamme dell’Inferno. Vale la pena rammentare quella storia sepolta in America, senza più grande eco dalle nostre parti. Docente al seminario gesuita di Boston e cappellano di Harvard, padre Feeney con un gruppo di suoi confratelli e fedeli arrivò a negare, negli anni Quaranta, la validità del «battesimo di sangue» e del «battesimo di desiderio»: solo l’acqua lustrale somministrata con il rito latino apriva le porte del Paradiso. Regnando Pio XII, la singolare posizione dell’ultrà tradizionalista finì rubricata nella disobbedienza a Roma e padre Feeney venne inquisito dal Santo Offizio. La storia si fece paradossale: «extra Ecclesiam nulla salus» era la bandiera del gesuita harvardiano che disobbediva alla gerarchia di quella Chiesa salvifica. E paradossale era il fatto che lo scrittore britannico Evelyn Waugh – uno che la conversione al cattolicesimo l’aveva fatta davvero, il brillante conservatore che morirà sulla porta della chiesa dove aveva assistito alla messa in latino ormai introvabile negli anni del post-concilio – si incaricasse di diffondere una pessima pubblicità intorno all’ortodossia rigorista del gesuita, definito bisognoso di un esorcismo per un evidente caso di possessione demoniaca. Il puritanesimo del cappellano di Harvard non poteva piacere al romanziere. E la disobbedienza ‘puritana’ non piacque neppure al papa che, dopo un regolare processo, incaricò l’allora giovane monsignor Ottaviani di inviare una lettera di scomunica. Che benedizione trovare in quel documento l’atteggiamento compassionevole del papa che ribadisce il dogma ma nel medesimo tempo mostra la elasticità cattolica, il buonsenso tradizionale, quando si rivolge alla umanità. Qualcuno potrebbe confonderla con lo spirito che anima la Dignitatis humanae, eppure la differenza netta che salta agli occhi del lettore attento mostra quanto caricaturale fosse il ritratto della Chiesa pacelliana a opera di molti padri del Concilio. Non c’erano le tenebre da una parte e la luce della tolleranza dall’altra. Nella Chiesa cattolica di sempre regnava la comprensione, il discernimento, la misericordia.

Nei tempi del dopoguerra, gesuiti furono gli incaricati di approntare una specie di servizi segreti della Santa Sede, nel momento che l’Europa orientale veniva inghiottita dalla Russia bolscevica; gesuiti formavano la guardia del corpo di Pio XII nella battaglia mondiale contro il comunismo, così come lo erano stati in quella contro il nazionalsocialismo; composto da gesuiti era anche il drappello di giovani incaricato dal papa di tenere a bada la tecnologia della comunicazione che allora si impennava, travolgendo le coscienze. Confratelli di padre Pierre Teilhard de Chardin, che voleva mixare alla francese Darwin e lo Spirito Santo, e di padre Rahner, che confidava nei «cristiani anonimi» (cristiani inconsapevoli come il Jourdain di Molière che faceva la prosa senza saperlo), erano i gesuiti Paolo Dozza, rettore della Gregoriana, e padre Pietro Boccaccio, giovane docente di lingua ebraica e aramaica, che raggiunsero il record del proselitismo: la conversione del rabbino capo di Roma, Israel Zolli, battezzato col nome di Eugenio Pio (in riconoscenza verso Pio XII). E il mite padre Felice Cappello, anche lui un prete nell’ordine di Ignazio, l’insigne maestro di diritto canonico e popolarissimo «confessore di Roma», acclamato santo in vita dalle folle che lo attendevano per il sacramento della penitenza nella chiesa dedicata al fondatore, riuscì a ottenere la conversione in punto di morte di due personaggi celeberrimi, Curzio Malaparte che, già fascista, si era lasciato sedurre dalla rivoluzione comunista cinese, e Concetto Marchesi che univa l’erudizione latina con il marxismo. Gesuiti i teologi Daniélou e de Lubac che provocarono il Vaticano II (de Lubac provò pure a difendere il Teilhard panteista, giurando che era un figlio devoto del magistero ecclesiastico) ma che poi espressero seri timori sugli effetti perniciosi del postconcilio.

Un esercizio della memoria questo, un elenchetto cui i lettori potrebbero aggiungere chissà quanti nomi, giusto per riportare in auge le sfumature, la varietà del cattolicesimo ben orchestrata da Roma, i difficili equilibri che rischiano di saltare quando – come è successo l’altro giorno – nella chiesa madre della Compagnia, durante una pubblica cerimonia, il predicatore sudamericano che indossava il pallio papale diceva: «noi gesuiti».