martedì 24 febbraio 2015

Anticlimax

~ ISTINTI GENERALI DELLA SOCIETÀ:
IL SETTECENTO TRA GODURIE LIBERTINE
E FURORI MORALISTICI. ~ APPUNTI SPARSI ~

Pathos contrapposto a Bathos, pietà, compassione versus riso di scherno, comunque scadimento, anticlimax (nel senso moderno dell’accostamento dissacrante alto/basso, ossia dal sublime al ridicolo). Nel 1764, William Hogarth aveva intuito molto del moderno. Soltanto un inglese poteva creare un’icona così potente come l’opera appunto titolata Bathos, con le stigmate precoci delle vignette dei comics e dei cartoons; nella parte inferiore della scena, collezioni di oggetti, antiquariato di strumenti dell’arte del passato finiti nella polvere, quasi spazzatura. Una atmosfera  apocalittica ma prosaica, «un modo di affondare», come recita il sottotitolo, di scivolare nel baratro. Del resto, l’altro titolo, Finis, alludeva sia alla prossima morte del disegnatore (fu la sua ultima incisione) sia alla fine del tempo che il moderno – dissolvendo la tradizione – comporta. E un altro artista inglese, Joshua Reynolds, poteva vantare la Parodia della Scuola di Atene (1751), dipinto romano che precede di qualche tempo la ripetizione estenuante delle Stanze di Raffaello da parte di pittori pellegrini del Grand Tour. Al posto dei filosofi c’era il consesso dei borghesi. Ma il trionfo del contemporaneo richiede di trasformare lo sfondo: in luogo delle raffaellesche architetture classiche le forme ogivali, l’universo gotico, l’ambiente dove si eleva l’uomo nordico, l’uomo moderno.  

Le tombe di Canova rovesciano quelle di Bernini. Nel Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria, le figure si avviano alla soglia fatale, entrano in uno spazio buio, dove il nero, in contrasto con il candido marmo, inghiotte  i personaggi. Ade di gusto massonico come la piramide che lo inquadra. Invece, nel sepolcro ideato da Bernini in memoria di papa Alessandro VII,  per esempio, fuoriesce la Morte nel drappo di marmo rosso. La terra e gli inferi – oltreché naturalmente il paradiso – sono nel Seicento delle figure piene di dettagli e noi possediamo immagini ‘realistiche’ dello spirituale. Questa è la testimonianza cattolica, l’evangelo barocco che viene tradito definitivamente dopo l’Ottantanove. Talvolta anche da Canova, massima autorità artistica della Roma dei papi.

Ricominciare da capo, ossessivo Leitmotiv sulle ceneri della tradizione. «Se mi si ordinasse un nuovo universo, avrei la follia di intraprenderlo». Giovan Battista Piranesi sfidava proprio la follia nel generoso progetto. Nessuno gli diede alcun incarico, il geniale architetto dovette accontentarsi di disegnare sogni e una chiesetta esoterica sull’Aventino. Una qualche affinità con Nietzsche che scontava in solitudine la sua volontà di rifare l’uomo. La Ricostruzione futurista dell’universo ne era una tarda e rumorosa appendice.

Il Settecento fu straziato al cavalletto (lo strumento di tortura, non quello di pittura), squarciato tra godurie libertine e furori moralistici. Gotico e Classico, Romano e Greco, indeterminatezza del sublime e chiarezza del disegno ‘italiano’, mistero e illuminismo, forma piena e forma ascetica. Piranesi li raccolse tutti in una medesima immagine, si trattasse dei camini o delle architetture fantastiche. Schinkel fece soltanto l’eclettico. Intanto, tra i pre-raffaelliti d’ogni scuola, la ‘perfezione’ rinascimentale doveva essere depurata dalla corruzione del virtuosismo (che loro reputavano) senz’anima; la ‘rozzezza’ medievale arricchita dal platonismo (che loro reputavano) raffaellesco. Comunque, anche per ragioni più generali, per sottile avversione dell’epoca, rifiutavano o mettevano tra parentesi o meglio ancora correggevano vistosamente la prospettiva com’era stata codificata nel Rinascimento italiano. Pre-raffaellismo infatti significa anche questo.

Delightful horror. Il brutto, il rude, l’adiposo, lo smisurato entravano nell’estetica del sofisticato Settecento: il macigno Shakespeare era rotolato fuori dell’isola britannica, e nel Continente, in primis nella Francia ancora classica, aveva un effetto dirompente. E naturalmente, la scoperta del Bardo a distanza di secoli dalla sua morte produceva anche molti equivoci.

Schiller spiegherà nel saggio Intorno al sublime che dentro una simile esperienza estetica c’è «dolore e godimento»: ecco una delle prime teorizzazioni dell’algolagnia (sfuggita al trattato di Mario Praz). Collocando la polarità dominazione/sottomissione su un piano storico, si può schematizzare: assolutismo del Settecento, pieno dominio su cose e persone:  Sade ne è l’epitome.  Il piacere visto dalla parte della classe dirigente dell’ancien régime. Democrazia dell’Ottocento, soggetto kantiano (imputato, giudice e boia al contempo): Sacher Masoch ne è l’epitome. Il piacere visto dalla parte della folla. Il sadismo era in qualche modo legato al mondo della tradizione, «un bastardo del cattolicesimo» lo chiama Huysmans in À rebours, ma quando il cristianesimo era ormai irriso e ridotto a rito mondano. All’opposto, il primo masochismo, che ancora non si chiamava così, è confessato timidamente da Jean-Jacques Rousseau, padre del nostro evo volgare, apostolo della democrazia: «L’essere alle ginocchia di un’amante imperiosa, l’obbedire ai suoi ordini, l’aver motivo di chiederle perdono erano per me dolcissimi godimenti…». Nell’epoca laica, positivista e anonima il dottor Masoch predicherà senza rossori il culto dell’assoggettamento. «Un istinto generale della società», per usare la terminologia di Leibniz. Hans Sedlmayr ricostruirà in campo artistico questa attrazione umana per la degradazione, il piegarsi alle forme più basse, il rifiuto dell’esercizio aristocratico del potere per inginocchiarsi poi, atterriti, davanti a ogni suo feticcio (cfr. il suo Perdita del centro).

Philipp Otto Runge dice esplicitamente che nella pittura vuole evadere dalla religione «nata» dal cattolicesimo così come si guarda bene dalla Storia. Quindi istituisce in arte il culto del paesaggio. E torna a contemplare la natura, come sempre quando le rivoluzioni falliscono. Però nella degenerazione rivoluzionaria si vuol mantenere saldo il sacro principio ispiratore e quindi resta una profonda attesa: dalla natura verrà la soluzione messianica che gli uomini non seppero darsi. Poi il paesaggio, ovvero il teatro dei pantesimi, la scena prediletta del sublime, l’infinito in cui affogare in mancanza di Dio, diventano man mano scenette riposanti e pittoresche per interni di case Biedermeier.

Paesaggi con rovine. Al progressismo illusorio dei Lumi si oppone il dato di fatto che sta avanzando solo il numero dei morti tumulati su questa terra, le tombe appesantiscono il nostro globo, si moltiplicano gli scacchi all’orgoglio umano. Appena un escamotage sarà quello di incenerire i corpi.

«Paganesimo delle immagini» era la vecchia accusa di tutti gli iconoclasti alla Chiesa di Roma, però la vera idolatria si ha quando l’arte, liberata da ogni vincolo, si erge come una nuova religione, religione idolatrica, appunto, politeista.   

Secondo alcuni è Goya a lasciare da parte a un certo punto i grandi condottieri nelle scene belliche per occuparsi,  primo artista, delle anonime vittime.  Ouverture del Novecento, della sua seconda parte, quando in seguito ad avvenimenti più criminali che guerrieri, si mise al centro la figura della vittima, si fece storia delle vittime, lasciando scendere un’ombra sui vincitori. Affondava così l’impianto classico. Non più le ragioni dei potenti, il modello della storiografia romana. Sopraggiungeva il ‘classico colpevolizzato’ degli ultimi decenni del secolo appena tramontato. Per rappresentare le vittime, piuttosto che l’arte del periodo aureo, ci vorrebbe quella paleocristiana, l’umiltà dei bassorilievi catacombali. Anche la letteratura classica è sospetta. Un sonetto o un romanzo sono quasi un delitto, solo lo sperimentalismo ha il diritto dalla sua parte, si sosterrà. Spariscono i trionfi, le architetture imponenti, i templi per il Deus Dominus. La Chiesa di Roma rinuncerà alla sua millenaria liturgia gloriosa.

I dipinti di Goya dedicati ai vinti si limitarono a celebrare i fucilati, i matti, i mostri. Fino ad allora le vittime anonime erano glorificate in quanto martiri della fede: soffrivano quaggiù i peggiori tormenti ma, mentre i loro aguzzini erano ancora al lavoro, si aprivano i cieli fulgidi per accoglierli in trionfi sontuosi, incoronati con le palme della vittoria. I martiri moderni, da Goya in poi appunto, risultano maggiormente dolorosi, senza alcun premio, senza neppure l’aldilà gaudioso. Inquietanti.

 

mercoledì 4 febbraio 2015

Buffoni

~ PICCOLI DUBBI SULL’ONNIPOTENZA 
DELLA SATIRA ~  


«Ben sogliono gli uomini schernire quello che non intendono»
                                                                        J. W. Goethe, Faust

Circa un mese fa, l’Occidente segnava con molta enfasi la sua estrema trincea dove si asserraglia, dove fissa il suo intoccabile caposaldo, il suo tabù, quel che resta del sacro: la buffoneria. La linea della civiltà si arrocca dunque sulle pernacchie. Chiama libertà la licenza di sghignazzare su quasi tutto; che cosa c’è di più nichilista e corrivo? Nel «quasi» si nasconde l’inganno: libertà assoluta di bestemmiare la divinità, avendo perduto il timor sacro, ma assoluta proibizione  di sfiorare i nuovi idoletti laici. Provate a celebrare per burla la mafia, o a dire semplicemente davanti a quei criminali paesani e arcaici un «chi sono io per giudicare?». Subito si invocherà una legge apposita che commini anni di galera per una simile opinione o tentennamento ideologico. E sarebbe difficile travestire quegli apprezzamenti sdruccioli come satira perché lo statuto di questa, come tutta l’arte e la letteratura contemporanee del resto, è sfuggente, ovvero sottomesso alle mode e alle politiche vincenti. Chi imbrattasse il patetico Diario della sventurata Anna Frank o dietro alla elastica nozione di satira ripetesse ogni giorno attacchi virulenti alla democrazia fino a impiccarla alle sue contraddizioni sarebbe criminalizzato senza attenuanti.  Nella gara meschina tra la blasfemia da una parte e gli infiniti temi che ogni fantasia malata può elaborare contro il pensiero unico dall’altra, si rasenta la idiozia compulsiva, niente a che vedere con la libertà.

A milioni, in generosa partecipazione mossa dal cristiano buonsenso per una strage incommensurabile con l’impertinenza, si è fatta di un giornalino una bandiera. Che il giornalino contenga la Trinità raffigurata in un atto di sodomia è accettato e smuove risatine anche tra i preti. Ah, ah, che sbellicamento. Cacchette sparse su quanto fino a ieri era considerato più prezioso al mondo. La fase escrementizia dell’infanzia, secondo il dott. Freud. Un americano immette sul mercato estetico molto proficuo un Cristo immerso nella orina, scandaletto facile, seguito comunque da elucubrazioni e tormenti, onde strappare qualche dollaro in più e uno status di artista (atei e nichilisti sì ma sempre tanto invidiosi di quel ruolo quasi divino). Gli occidentali non soffrono più per tali offese, sono cristiani adulti. Hanno elaborato anche una teoria assai zoppicante sulla faccenda confusa della satira: sarebbe il caso di ricorrere alla violenza polemica soltanto quando questa attacca i potenti e i simboli dei potenti. Dimenticano che per ogni parte in conflitto i potenti sono semplicemente gli avversari. Dimenticano soprattutto, quando enunciano questi escamotages, che la vittima per eccellenza, la vittima divinizzata è Gesù (dimenticano o nascondono il pensiero di René Girard a tal riguardo). Se la cavano con la spiegazione che la divinità cristiana è ben al di sopra degli scherzi, che non si lascia toccare dagli insulti e in ogni caso certi teologi contemporanei non vogliono più saperne delle ferite al Dio incarnato, della passione di Cristo, della sofferenza del Dio umanizzato che si rinnova al di là del tempo. Con questi trucchi intanto, la satira prende il posto dell’arte, diventa onnipotente, e i buffoni sono i nuovi sacerdoti, i nuovi maestri di morale, i nuovi commentatori di Dante e nunzi a modo loro del bello, i nuovi politici, le nuove guide. Si ascoltano filosofi celebrare la sacralità della libertà d’espressione (in un mondo in cui non viene riconosciuto altro sacro inviolabile), l’espressione santa essendo ormai solo quella dell’arte comica. Oggi la satira è critica più o meno feroce in nome della demagogia, i comici pantocratori sono maestri di populismo come nessun altro tiranno mai.  L’attuale culto della satira dichiara inutile perdersi nella riflessione, nel ragionamento, nella elaborazione filosofica, basta uno sberleffo, una parolaccia, un insulto, una bestemmia che, come un sorso di vino di troppo, una sniffata di cocaina, faccia venir giù il mondo. Il pensiero che si impone al nostro tempo sempre a quell’obiettivo mira: annullare il creato, renderlo indifendibile, infondato.

I disegnetti degli ilari bestemmiatori, infatti, sono roba da osterie d’antan, sgorbi osceni sui muri delle periferie, rozzi pensieri, forme ancora più rozze. Un satirico italiano, intervistato appo i fattacci parigini, celebra l’immediatezza delle vignette del suo giro, loda il taglio del nodo gordiano verbale, rammenta la ricerca spasmodica e mistica di un colpo che faccia a meno di pensieri e logica, che spezzi sintassi e concetti, che prescinda da ogni criterio, e così enumerando pare evocare proprio quella sventagliata di mitra che taglia la testa al toro e agli umani, che è più veloce di ogni battuta, più eloquente, più diretta di ogni schizzo caricaturale.

Prima ancora di discettare sull’islam però, sarebbe il caso di riflettere sulle cose sacre che restano nel nostro mondo. Non si parli di scontro di civiltà, e neppure di incontro, dal momento che ogni giornalista televisivo vi spiegherà con aria di sufficienza che la civiltà è una sola. Ohibò. Civiltà unica che si specchia nel pensiero unico. Nella religione unica, quella laica. Guai a chi provi a restare fuori a questa unicità. Guai a chi non rida delle vignette dei martiri. A chi non si identifichi con la loro stupidità. Si può discutere, e ridicolizzare beninteso, il pensiero di Tommaso d’Aquino, il pensiero di Ibn Arabi, di Maimonide, si può decostruire la cultura occidentale, si può mettere alla berlina  la Bibbia e il Corano, duemila anni di cattolicesimo con i suoi dogmi, più di duemila anni di formalismo farisaico, ma non si può non piegarsi a quell’atto di libertà che sarebbe lo sberleffo dei buffoni.

Civiltà unica, pensiero unico.  Rigidità impressionante. Neppure nel medioevo imperiale, teocratico e assoluto, erano proibiti i varchi come nell’Occidente democratico e laico. Apparvero così scandalizzati dal discorso piano del papa teologo  a Ratisbona, adesso lo ripetono in versione commerciale. L’islam si deve laicizzare, grida il direttore del giornale più modaiolo d’Europa. In Occidente non è più ammesso il sacro. Che si convochino le processioni laiche come quella di Parigi che pareva la versione postmoderna del giacobino culto dell’Essere Supremo. Le religioni risultano ormai sanguinarie. Un vecchio semiologo che scrive romanzi di successo propone senza remore l’abolizione delle religioni. Se i cattolici provano vergogna come  quasi tutti gli occidentali a difendere l’aspetto sacro del cristianesimo che spendano una parola almeno per quello dei nostri diretti concorrenti che si richiamano al Libro (sacro, appunto), non sproloquino solo per il loro benessere fisico e per i loro salari e diritti vari (la Chiesa di Roma non è un sindacato).

Sempre volgarizzando al massimo il discorso di Ratzinger si parla di illuminismo come si trattasse dell’accumulazione del capitale che permette di accedere alla rivoluzione industriale. Resta in ombra il fatto incontrovertibile che la critica illuminista nasce in seno alla civiltà cristiana, alle sue distinzioni tra sacro e profano, tra clero e laici, tra umani fatti a immagine di Dio. Ci si deve invece mettere in fila – impone l’opinione pubblica – e acquistare anche a caro prezzo il biglietto per diventare in breve tempo illuministi. Nel prezzo c’è la distruzione delle singole culture, della tradizione familiare, della propria storia. Naturalmente nelle chiacchiere giornalistiche si ignora la dialettica dell’illuminismo, la ricostruzione a opera di Adorno e compagni della faccia totalitaria dei Lumi, dell’annientamento di etnie, culti e culture che tentano di resistere alla sua ideologia progressista. Nessuno osa più ricordare alla maniera dei pensatori francofortesi che la luce abbagliante dell’illuminismo produsse le ombre dolorose nel Lager.

La coabitazione forzata tra popoli e culture distanti, che la globalizzazione economica impone (con mascherature a vario titolo filantropiche), riduce l’illuminismo a un corso rapido di desacralizzazione del mondo, di cancellazione delle immagini della rivelazione divina a favore di un sincretismo astratto su cui già si era cimentata la massoneria borghese. Resta l’adattamento più o meno forzato al vuoto, il protestantesimo del tutto laicizzato cui si dovrebbero piegare anche i popoli del nord-Africa e del medio-oriente. Perché meravigliarsi della attrattiva per i più giovani della lotta cruenta, delle armi pesanti? La sociologia la fa lunga con la disoccupazione nelle periferie, non sa nulla di queste ferite al cuore ben più gravi, dello scoramento in solitudine senza il conforto del paradiso.

Si dice candidamente medioevo quando si parla dell’islam, come se fossero speculari i secoli del nostro feudalesimo o dei Comuni e i secoli del Califfato arabo. Nella civiltà unica e appiattita è infatti poco corretto sottolineare il sorriso che segnò da noi la letteratura e l’arte, proibito poi ricordare lo spirito di tolleranza del cristianesimo pre-illuminista per cui già allora sarebbe apparsa aberrante una strage causata da uno scherzo stupido. Abituati a battersi il petto in quanto occidentali, a vedere il bicchiere mezzo vuoto, a scandalizzarsi proprio in quanto occidentali e cristiani per le teste tagliate (piuttosto che trovare motivo di vanto di essere usciti per primi dalle crudeltà religiose), si abbandonano all’oblio tante cose. Per esempio Giovanni Boccaccio, narratore di storie mondane, che parlava nelle chiese o anche, sulla sua scia,  i Racconti di Canterbury in cui i pellegrini criticavano preti e frati. O  Dante che poteva mettere all’Inferno il papa regnante, non impiccare soltanto il profeta Maometto con le sue budella.