domenica 19 aprile 2015

L'avvenire d'oltretomba

~ IL MONDIALISMO E LE MACCHINE
AL POSTO DEI «MERCENARI DELLA GLEBA»
NEI MÉMOIRES DI CHATEAUBRIAND ~

Era il 1841 quando, nel XLIII Livre dei Mémoires d’Outre-tombe, Chateaubriand muoveva ai progressisti alcune obiezioni che paiono abbozzare i caratteri del mondo attuale o quantomeno le sue tendenze più perniciose. Appena delle domande appuntate, delle frecce di realismo che colpiscono le utopie uscite dalla Rivoluzione e alla base della futura ideologia di sinistra. Un titoletto dei capitoli da cui si cita è «L’avvenire - Difficoltà di comprenderlo». Lui lo aveva afferrato bene, lui «l’incantatore», come lo chiamavano in famiglia, non si era lasciato incantare dalle promesse della sua epoca. Gli tornava insistentemente nella mente la vecchia madre in prigione, il fratello e la cognata che finiscono sul patibolo, ghigliottinati, la morte crudele dei familiari dunque, le teste che rotolano per la gloria del progresso impediscono di credere alle «magnifiche sorti» che ancora abbindolano i nostri contemporanei. Una curiosità: il Visconte citava l’esempio di Omero per esaltare la individualità letteraria quando i suoi confratelli romantici ricorrevano ai poemi omerici come a una testimonianza eccelsa della creatività collettiva.

Quando la macchina a vapore sarà perfezionata, quando unita al telegrafo e alla ferrovia, avrà fatto sparire le distanze, non saranno solo le merci a viaggiare ma anche le idee. […] Supponete che le braccia siano condannate al riposo per la molteplicità e varietà delle macchine; ammettete che un mercenario unico – la materia – rimpiazzi i mercenari della gleba e della domesticità, che ne farete allora del genere umano disoccupato? […] L’uomo è meno schiavo dei suoi sudori che dei suoi pensieri. […] La percezione del bene e del male si oscura man mano che si rischiara l’intelligenza. […] Il mondo attuale, il mondo senza autorità consacrata sembra posto tra due impossibilità: l’impossibilità del passato e l’impossibilità dell’avvenire. […] Nel mondo materiale gli uomini si associano per il lavoro, una moltitudine arriva prima, e attraverso strade diverse, alle cose che cerca; delle masse di individui innalzeranno le piramidi […]. Ma nel mondo morale accade forse la stessa cosa? Si coalizzino pure mille cervelli, non comporranno mai il capolavoro che esce dalla testa di Omero [...]. La follia del momento è di arrivare alla unità dei popoli e di trasformare l’intera specie umana in un solo uomo, e va bene; ma una volta acquisite le facoltà generali non verranno forse a mancare i sentimenti privati? Addio alle dolcezze domestiche. Addio agli incanti della famiglia […] L’uomo non ha bisogno di viaggiare per crescere, già porta dentro di sé l’immensità. […] chi non possiede dentro di sé questa melodia, la cercherà invano nell’universo. Sedetevi sul tronco d’albero abbattuto in fondo al bosco: se nel profondo oblio di voi stessi, se nell’immobilità, nel silenzio, non troverete l’infinito, sarà inutile smarrirvi sulle rive del Gange.

Che cosa sarà una società universale senza singoli paesi, né francese, né tedesca, né inglese,  né tedesca, né spagnola, né portoghese, né italiana, né russa, né tartara, né turca, né persiana, né indiana, né cinese, né americana o, meglio, che sarà di volta in volta tutte queste società? Che ne risulterà per le sue intelligenze, i suoi costumi, le sue scienze, la sua arte, la sua poesia? Come entrerà nel linguaggio questa confusione di bisogni e di immagini prodotti sotto diversi cieli [,,,], sotto quale legge  unica se ne starà una simile società? Come troverete posto su una terra ingrandita dalla potenza dell’ubiquità e ridisegnata nelle piccoli proporzioni di un globo sondato dappertutto?

Stanchi della proprietà privata, volete fare dello Stato un proprietario unico che distribuisce alla comunità, divenuta mendicante, una parte misurata sul merito di ogni individuo? Chi giudicherà dei meriti? Chi avrà la forza, l’autorità, di fare eseguire gli arresti? Chi farà valorizzare questa banca di immobili viventi? Tenterete l’associazione del lavoro? Che cosa apporterà il debole, il malato, il pigro, lo sciocco nella comunità gravata dalla loro inettitudine? […] Al fondo di questi diversi sistemi rimane un rimedio eroico, esplicito o sottinteso […]. L’uguaglianza [assoluta] condurrebbe non soltanto alla servitù dei corpi ma anche alla schiavitù delle anime: si tratta niente di meno di distruggere l’ineguaglianza morale e fisica degli individui […]. Chi non ha proprietà non è indipendente […]. La proprietà in comune fa somigliare la società a un monastero alle porte del quale degli economi distribuiscono il pane […]. L’eguaglianza completa, che presuppone la sottomissione completa, riproduce la più dura servitù.
(capp. 2-6, passim)

sabato 11 aprile 2015

Colore viola

~ SE UNA VOLTA ALL’ANNO VELASSIMO 
LE IMMAGINI E BENEDICESSIMO I SENSI ~   

Se il cristianesimo è tra gli ‘inventori’ del tempo lineare, nel segno dell’attesa lancinante del ritorno di Cristo, c’è tuttavia in questa religione un tempo ciclico, ed è quello dove le feste ritornano, e con esse la divinità si manifesta nelle sue distinte forme, e con esse i fedeli la celebrano nelle sue distinte forme, tali feste coincidendo con le stagioni dell’anno e con le ore del sole; talvolta, come per stabilire dove cada la Pasqua, anche con le facce, le fasi, della luna. L’anno liturgico è frutto di questa concezione. Quando, come di recente accade, la liturgia viene umiliata, sottoposta cioè all’attualità più caduca, perde quel confortevole simbolismo dove anche la natura e le sue metamorfosi partecipano al sacro calendario. Però il risveglio di primavera, il rifiorire della natura nei giorni della Pasqua, è appena un ornamento armonico, una bella illustrazione del mistero, un privilegio del vecchio continente dove il cristianesimo elaborò il suo messaggio, ché l’evento pasquale si rinnova pienamente anche tra i ghiacci perenni, anche agli antipodi del nostro emisfero. 

Nella Settimana santa appena conclusa, in quella che si sta svolgendo nel culto ortodosso, nel cuore cioè dell’anno liturgico cristiano, si addensano i simboli e viene a congiungersi l’Antico e il Nuovo Testamento, l’annuncio messianico, la morte del Dio fatto uomo, la vittoria sulla morte del Dio fatto uomo. Si muore un po’ tutti nel triduo pasquale, si sperimenta un corpo a corpo con la morte, insieme a Cristo si vince il duello. Ecco un tempo ciclico che non somiglia all’eternità malvagia immaginata dai pagani. La luce pasquale è quella lietissima che, come nei migliori sogni degli umani, si accende nelle paradisiache scene di Dante e del pittore domenicano, dell’Angelico, con i giardini di quaggiù che si perfezionano nel cielo, là dove si viene accolti da una folla di angeli e beati, musica circolare, contrappunti vertiginosi, sante e santi  bellissimi, toni soavi e discorsi mirabili, acuti ma senza alcunché di oscuro, e incontri, continui incontri di antenati, fino a gradi sconosciuti, in tutti ritrovando però un segno, una somiglianza commovente, se la parola non fosse lassù inopportuna, comportando lacrime sia pure figurate… La festa di Pasqua apre a tali mondi. Vane le critiche di parte bizantina alla liturgia cattolica per un presunto ‘eccesso di dolorismo’. C’è il dolore e c’è la gloria, il modo minore e il modo maggiore.

La mania attuale di smussare ogni asperità della religione, la rilettura del Vangelo «alla luce del mondo», in luogo del confronto tra la luce evangelica e le tenebre del mondo, distrugge anche quegli elementi che proprio i mondani cercano invano: il riflesso metafisico nell’universo corporale. Digiuni e atti penitenziali, esercizi ascetici, frugalità che si alterna alla pienezza, astinenze dalle carni per potere consumare in altri giorni gli agnelli senza sentimento di colpevolezza, colore viola e colore bianco. Tempi di mortificazione e tempi di resurrezione. Anche i bambini nei loro giochi si impongono la penitenza per compensare l’errore, il peccato che ha violato l’ordine ludico. Nulla osterebbe, neppure le disposizioni postconciliari in proposito, che la vecchia usanza di velare le immagini venisse ripresa anche nelle chiese dove si ha in uggia il latino. Sarebbe come minimo un’opera di bonifica. Pierre Klossowski prima di tutti, aveva scritto che l’iconoclastia contemporanea non distrugge le immagini, le moltiplica all’infinito. Avrebbe aggiunto Baudrillard: ne distrugge perciò il senso. Una pausa nell’anno, nella nostra fantasia, nella nostra percezione, sarebbe allora un rito collettivo in grado di aiutare a cogliere il senso della pittura e della scultura occidentali, a marcarne i confini. Forse tornerebbe utile anche agli illustrissimi porporati che preannunciano padiglioni vaticani per le fiere dell’arte aniconica, quasi si fosse obbligati ai precetti veterotestamentari e coranici, dimentichi di quanto hanno predicato loro stessi sulla centralità del corpo nel cattolicesimo.   

Tutto l’anno ormai l’immagine viene ferita e offesa dalle pratiche estetiche contemporanee, il rito cattolico propone invece una cancellazione provvisoria, penitenziale, limitata ai giorni del massimo lutto, affinché se ne goda con maggiore consapevolezza nella gioia pasquale. E così per la musica: le armonie e le polifonie e la sonorità, perfino quelle delle campane e dei campanelli, si sospendono il giovedì santo per riapparire nella notte del sabato, rompendo finalmente quel lungo e terribile silenzio. Nel nichilismo della musica colta di oggi il silenzio si impone sempre, eterno lutto dei sensi, il cattolicesimo lo trasforma in un esercizio spirituale, in un'opera di misericordia, in una meditazione sul vuoto che ci attornia e su come l’arte ci possa ancora consolare.
 

sabato 4 aprile 2015

Il guerriero

 ~ LETTERA DA ROMA NEI GIORNI
DELL’AGONIA DI KAROL MAGNUS ~
 
‘Lettere dimenticate nel computer’ è una specie di rubrica che in qualche occasione l’«Almanacco» ripropone tirando fuori e pubblicando emails rimaste nella memoria del nostro elettrodomestico. Dieci anni fa, il 2 aprile, moriva Giovanni Paolo II e questo scritto, in prima persona e con i caratteri della conversazione, anche della confidenza, racconta a un interlocutore lontano l’atmosfera di quelle ore in cui tramontava uno dei  più lunghi pontificati della storia bimillenaria della Chiesa.
… L’altra sera, proprio mentre cominciava l’agonia del romano pontefice, a cena quel poveretto ripeteva le banalità sul papa ‘conservatore’ (ma Emanuele Severino: il papa non può non conservare, ordinare, Giovanni Paolo si è spinto al massimo nell’apertura…), sul ‘ritorno a Trento’, come fosse possibile tornare anche solo a Pio IX. Inutile ripetergli che il cattolicesimo della mia infanzia era già irrepetibile, Pio XII non avrebbe capito che le folle dei papaboys, con lo spirito e le forme protestanti e un certo candore, diciamo così, nordico, appartengono ormai alla Chiesa di Roma. Di fronte alla star mondiale polacca, Eugenio Pacelli, pur proteso verso il mondo dolentissimo, in posa tra le macerie di San Lorenzo, con la veste bianca macchiata di sangue, a farsi icona delle rovine della guerra, o ad atteggiare la figura ieratica per cartoline popolari, e pur ricevendo quotidianamente alla sua corte i principi veri del mondo e quelli cinematografici, i divi dello sport e i divi ancor più effimeri della politica, secondo antiche gerarchie (ai suoi funerali, gli eredi dell’Impero austro-ungarico verranno prima dei capi di Stato al potere, prima di ogni altro sovrano), si concedeva alle folle con sapiente parsimonia. Moltissima radio, rari cinegiornali, televisione una volta all’anno. Pontefice neobarocco, qualche volta assisteva alle messe solenni (a Natale e a Pasqua, ma non sempre), rarissimamente celebrava di persona. Da bambino mi capitò di andare con mio padre in Vaticano, era la mia prima volta, attraversammo i cortili rinascimentali, poi una serie di corridoi, dove gli svizzeri e altri gendarmi ci sbarravano il passo (eravamo in ritardo), infine scostammo una pesante tenda verde (è successo più di mezzo secolo fa ma l’immagine resta netta) e mi ritrovai nella Cappella Sistina. Sicuramente sarò stato preparato a questo singolare luogo, all’arte di Michelangelo, ma io fui colpito da altro: lì tra i ceri e l’incenso, tanto incenso, c’era un magrissimo papa, vedevo il papa, che era come dire vedevo Dio. Il Giudizio dipinto non mi si fissò in mente quel giorno. Il vicario di Dio celebrava messa e al celebrante una volta tanto si addiceva il troppo abusato aggettivo di carismatico. In vita mia, due ne ho visti di veramente dotati di carisma: papa Pacelli e padre Pio quando celebrava messa, ma anche quando allontanava le donne ciarliere come un eremita del deserto.
Nel 1982, quando l’Italia vinse a calcio la Polonia, molta gente dei quartieri nei dintorni di piazza san Pietro si recò in moto e in auto con i tricolori a rumoreggiare davanti alle auguste finestre dei sacri palazzi. Uno sfottò da Don Camillo  e Peppone, roba da curati di campagna, il papa non era più impenetrabile, altro che i  faraonici  flabelli che si agitavano, ancora nei Cinquanta,  accanto al trono del sommo pontefice, ventagli di bianche piume di pavone issate su aste dorate a simboleggiare la gloria. In una parrocchia di periferia vidi Wojtyla abbracciare con slancio la signora delle pulizie del mio palazzo, donna operosa che trovava il tempo di far parte del consiglio parrocchiale. In confronto anche il suo predecessore lombardo, il Montini della piccola nobiltà bresciana, era un Giulio II quanto a sprezzo.
Tanto distanti cerimoniali, Pierluigi da Palestrina sciaguratamente sostituito da canzoncine orride, non impedivano la continuità della tradizione apostolica. Del resto, anche l’agonia del severo Pacelli finì in pasto ai media, con il suo archiatra stoltissimo (tutti i medici dei pontifici del Novecento non sembrano granché, un tempo si ricorreva ai medici della comunità ebraica romana, gesto di reciproca fiducia) che scattava foto a Pio XII in pigiama e le vendeva ai magazines Usa. Simbolico evento, cui si aggiunse l’imbalsamazione riuscita male che produsse l’esplosione della salma, nella notte, sul catafalco seicentesco a San Pietro: il corpo esibito di fronte al mondo, il corpo dolorante, il corpo cadaverico (e in quel caso anche disintegrato). Che cosa c’è di più cattolico? In un’epoca in cui gli spiritualismi d’origine protestante avevano già preso piede nel mondo, i papi cattolici ricordavano in prima persona la fisicità di questa religione. Pio XII e il Polacco. In mezzo, si riaffermarono gli angelismi conciliari che erano l’altra faccia dell’umanesimo ateo (Pascal docet). L’arte non paga di aver sostituito la religione, adesso si permetteva di istruire i padri conciliari. Kandinskij era più popolare di Tommaso d’Aquino. Al massimo – si concedeva – i cattolici carezzavano maggiormente i simboli, ma con diffidenza, ci si raccomandava, perché un teologo protestante come Bultmann, in gran voga, metteva in guardia: «Per la fede cristiana l’idea di bello non ha alcun significato formativo della vita; essa vede nella bellezza  la tentazione di una falsa trasfigurazione del mondo…» (appunti da Glaube und Verstehen che mi ritrovo in tasca). E poi Kandinskji e il suo astrattismo, era l’icona della modernità, dell’aggiornamento come si diceva allora, e nessuno idolatrò tanto una idea di moda quanto i monsignori degli anni Sessanta e Settanta. Venne Giovanni Paolo II e brandì la croce nella prima cerimonia in piazza san Pietro, a rivederlo ora sembra uscito da un film russo, un pope guerriero. Avanzava verso la folla, ruppe i cordoni della polizia, con il pastorale a forma di croce agitato come un bastone, finché con pianeta e mitria, incontrò il suo pubblico… La Chiesa stava in una situazione peggiore che al momento della scissione del monaco sassone. L’eresia luterana era penetrata nella Curia. Un terzo dei preti e delle suore aveva abbandonato i conventi, spesso per qualche misero accoppiamento che si voleva benedire con un matrimonio riparatore. Quanto insistettero i cortigiani perché il papa polacco acconsentisse al superamento della castità sacerdotale, o comunque permettesse i matrimoni dei preti che volevano restare cattolici: altrimenti, si diceva, scapperanno tutti. Un quarto di secolo dopo, è vero il contrario, restando fedele alla tradizione ha ritrovato il consenso maggiore. Ma allora i teologi si lasciavano incantare dagli umanesimi più ovvi, dal pansessualismo freudiano, dalla sociologia. Il cosiddetto ecumenismo mascherava una idea fissa: Lutero aveva ragione, la Chiesa di Roma torto. Su tutta la linea. Perfino l’ateismo aveva maggiore credito della tradizione cattolica. E questo non tra i fedeli smarriti, ma tra i cardinali e i vescovi. Ci si dimentica facilmente di quell’epoca. Nell’anno santo del 1975, per esempio, si discusse a lungo se tenere o meno il giubileo, ci si vergognava di simili celebrazioni. Paolo VI si impuntò, ma un filosofo cattolico ufficiale come Jean Guitton – uno dei due laici ammessi al Concilio – scrisse una pessima profezia: probabilmente tra venticinque anni non ci saranno più dei giubilei (tra le righe si capiva che non ci sarebbe stata neppure più la Chiesa di Roma). Era sensazione comune che la Chiesa si sarebbe dissolta nel culto dell’umanità preconizzato da Auguste Comte. Oggi, rozza, polonizzata, un po’ meno romana, ma ancora gigantesca, la Chiesa cattolica riafferma, grazie a Wojtyla, la sua vittoria sulla eterna gnosi. Il corpo è più che mai al centro della religione derivata dall’ebraismo. Proprio per questo le differenze sessuali vengono marcate a dispetto degli spirituali che tutto vorrebbero annullare (omosessualità, donne sull’altare: è il sacerdozio universale di Lutero, la Parola interiore e suprema che cancella l’aspetto fisico), proprio per questo si assiste all’insistente, esasperante attenzione per feti, cellule staminali, ecc. Lì è il sacro, il consacrabile, il kasher, guardatevi dall’eclettismo in nome dell’anima, parola che non esisteva nella lingua di Gesù, sembra dire la Chiesa wojtylana. Anche questa agonia sta a ricordare che spirito, nella tradizione giudaico cristiana, è anche il soffio vitale che esce dalla bocca umana, fisico anch’esso. Quando il camerlengo batterà i colpi del suo martelletto sulla fronte del pontefice, quando nello specchio il fiato non apparirà più, vuol dire che, come Gesù sulla croce, egli ha emesso il suo spirito. Non resta che la resurrezione dei corpi.
Dunque, prima affinità con il papa aristocratico, lo spettacolo del corpo. Il vangelo è già una forma di divulgazione di massa, di spettacolare messa in scena della promessa più intima di Dio ad Abramo, l’ebraismo annunciato alle genti del pianeta. Ecco perciò quel civettare con i media, che ha valenze teologiche. Ieri sera il critico tv del «Corriere della Sera» nonché docente cattolico all’università proponeva un suggestivo schema: appena pochi decenni fa, concepivamo il corpo di carne e di sangue da una parte e, dall’altra, la sua rappresentazione. Ora il duplicato della rappresentazione si confonde con il corpo fisico, lo scambio è quasi totale, affidato alla riproduzione anonima del digitale. Un altro trionfo dei corpi, si potrebbe dire, che tanto esaltava il teorico cattolico Marshall McLuhann. Lui, che andava a messa prima delle sue lezioni, sapeva bene della cattolicità di questi media e avrebbe potuto annunciare il papa polacco come un destino delle sue analisi.
Seconda affinità: la lotta al comunismo che voleva distruggere la Chiesa. Uno la iniziò, l’altro la vinse.
Terza affinità: gli ebrei, la 'vicinanza' con gli ebrei. Oggi si dice che Giovanni Paolo sia stato il primo papa a pregare in una sinagoga. Ignoriamo se Simone detto Pietro non frequentasse più (non aveva l’avversione di Paolo per i suoi ‘correligionari’ di un tempo), e resta una questione importante. Sappiamo però che nella cattedrale cattolica di Berlino – regnante Pio XII – si pregava ogni pomeriggio, durante lo sterminio, per gli ebrei perseguitati, e tali preghiere provocarono l’arresto e la deportazione dei celebranti. Sappiamo che von Galen, il cardinale fieramente antinazista che predicava dal pulpito contro le teorie hitleriane, era un missionario di Pio XII e, qualche settimana  fa, ho scoperto che Wojtyla lo stava per canonizzare…
Tra poco, ci sarà l’annuncio alla città di Roma che il suo vescovo è morto. L’Urbe deve essere ancora la prima, la città privilegiata, la nuova Gerusalemme. Stanotte era chiaro che la cultura latina, nonostante le architetture vaticane, si è molto imbastardita. Una influenza europea-orientale ben maggiore di quella fiamminga sotto papa Adriano, l’ultimo papa straniero, quando pure i pittori della sua corte disegnavano il Colosseo goticheggiante perché così lo percepivano. Ma l’imbastardimento (non il sincretismo) è il segno più sicuro del cattolicesimo, è la commistione delle razze che trionfava nella Roma imperiale e in quella papale, suscitando anche nei tempi moderni lo sdegno di Chamberlain, genero di Wagner, luterano senza più cristianesimo…