DAVANTI A UN UOMO
CON LA FASCIA DI TRE COLORI ~
«Per finirla lietamente
e all’usanza
teatrale
un’azion
matrimoniale
le faremo ora seguir»
le faremo ora seguir»
Lorenzo da Ponte, Le
nozze di Figaro
Difficile fu giustificare il matrimonio ‘civile’. Ovvero, come
incatenare due persone per buona parte della loro vita, senza la grazia che
scenda dall’alto a vincere il tempo che vince l’amore. Che cosa non si
inventarono i filosofi. Fichte parlò di uno spazio giuridico dove la donna si
sottomette all’uomo con un atto di libertà. Riconosceva, bontà sua, che «la
tendenza umana è egoistica» ma al tempo stesso pareva convinto che «nel
matrimonio la stessa natura guida [il coniuge] a dimenticare se stesso
nell’altro»: chissà mai per quale miracolo del pubblico funzionario che li
unisce, la pancia incoccardata, quali marito e moglie. Kant con germanico
puntiglio si imbrogliava nel «contratto con prestazioni corrispettive» che
permetteva, in penoso linguaggio burocratico, il possesso giuridico del piacere
ricavato dagli organi sessuali. E l’apologeta dell’intelletto, l’intellettuale
disinteressato alle questioni amorose e mai tentato – pare – dalla libidine,
esponeva il suo contratto in questi termini procedurali: «le parti genitali si
cedano nell’uso e parimenti l’intero corpo». Una faccenda davvero borghese, una
pochade in cui annega la filosofia del diritto. Senza la veste sacra, fuori del
mistero impresso dal cristianesimo alla passione umana, questi poveri teorici
post-libertini, questi professori pedanti quanto timidi, erano alle prese con
il pudore, la ritrosia, i corpi, gli amplessi, i diritti dell’uomo e
della donna che mal si conciliavano con gli istinti del maschio e della
femmina, la riproduzione della specie che si voleva sottratta all’attività
puramente animale, la fragilità dei sentimenti, le proprietà e i beni d’ogni
natura che si mediavano con l’amore. La soluzione tentata dal supremo
illuminista fu di ridurre l’amore a un rapporto giuridico. Hegel se ne
scandalizzò e la definì «una sconcezza». Ma kantiani o hegeliani, illuministi o
romantici, contrattualisti o idealisti, il problema di fondo consisteva in
questo: se siamo di fronte a un fatto privato, perché in tanta privatezza lo
Stato deve intervenire e celebrare i matrimoni? Perché violare con la mano
pubblica l’intimità dell’alcova?
Hegel spiegava il riconoscimento pubblico del matrimonio come
l’ingresso dell’amore nella collettività sociale. L’amore perciò, sosterrà
nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts, viene così «liberato da tutto quello che può avere in sé di
passeggero, capriccioso, soggettivo; per cui il matrimonio diventa un dovere
etico, di fronte al quale le considerazioni delle inclinazioni, della previdenza,
dell’interesse scompaiono». Argomentazioni che neppure un papa oggi
oserebbe proporre. Più prosaicamente, nel dialettico rapporto tra sposi e Stato
dei tempi che furono, si poteva intravedere un nascosto interesse reciproco,
noto a tutti ma da non scrivere a chiare lettere nelle carte costituzionali. Lo
Stato istituzionalizzava la convivenza tra un uomo e una donna, offriva loro
agevolazioni, regolarizzava i patrimoni dei due sposi, stabiliva le regole
esteriori, assicurava per i figli che nascevano da questo matrimonio almeno la
cittadinanza che consentisse di vivere nel territorio dei genitori e magari
anche gli studi primari e, già prima del welfare, qualche forma di soccorso. In
cambio si prendeva a disposizione la vita dei figli maschi onde rischiarla sui
campi di battaglia per le guerre che combatteva; più in generale poteva
contare sul numero dei sudditi che era potenza, e nel più misero dei casi sulle
braccia da impiegare nei campi agricoli e sugli uteri per riprodurre la
popolazione. Lo Stato non avrà scrupolo naturalmente di utilizzare per i suoi
fini anche le famiglie nate dal matrimonio cristiano, sacramentale, davanti al
sacerdote cattolico, o da quello comunque religioso, davanti al pastore
protestante o al rabbino. Ci apporrà il suo marchio. Dopo la Rivoluzione francese
si era tolleranti, gli eserciti esportatori di democrazia non guardavano troppo
per il sottile in fatto di arruolamento, anzi, di fronte alla coscrizione
obbligatoria, tutti i credo religiosi andavano bene, valevano lo stesso. Anche
l’agnosticismo otteneva il suo rispetto pubblico e risultava addirittura più
caro allo Stato repubblicano e laico. Ma a prescindere dalla forma statuale,
c’era bisogno di confermare il matrimonio e la famiglia anche per chi non si
riconoscesse in una religione, anche per le ristrette minoranze degli atei.
Nulla doveva sfuggire all’onnipotenza dello Stato. L’amore finiva così per
sottostare alle leggi civili. Il laico mimava anche in questo campo il
cerimoniale religioso. E il libero pensatore che non voleva disonorare l’amata
agli occhi del vicinato si sottoponeva al rito ‘civile’. Nessuna dignità fuori
di questo Stato, dunque, addirittura gli inferi della illegalità per i rari
‘anarchici’: guai agli amanti segreti, ai figli irregolari, senza nome; sospetti
i separati, comunque in disgrazia.
Adesso lo Stato non richiede più sacrifici umani, alla guerra,
come nei tempi pre-moderni, si va solo per soldi. La cittadinanza sarà presto
distribuita in generosa abbondanza, le frontiere in via di smobilitazione, i
cognomi – materni o paterni, aggiunti o meno – possono esser scelti per gusto
estetico o per affettuosità, tanto l’occhiuta informatica garantisce ugualmente
l’identificazione e il pagamento delle imposte (che è cosa più sacra ormai del
nome). Nessuno persegue più nessuno per il concubinato che una volta fu messo
tra i reati. Nessuno nel nostro mondo ha bisogno del riconoscimento pubblico
alla sua affezione per garantirsi rispettabilità sociale. Appena un ricordo,
casomai, della tradizione intesa come fiabe, cinema rosa, ripetizione ironica
di quel che fecero con candore, con fede cioè, i padri e le madri. Né gran
parte degli sposati sembra voler mettere al mondo figli, e casomai le future
madri li posticipano alla laurea, al salto di carriera, materialismo gretto che
neppure nel secolo positivista si vide mai, lasciando le nozze
programmaticamente infruttuose. Ebbene, se il matrimonio è sottoposto a tutti i
capricci degli umani, e prescinde dalla procreazione coniugale come dai sessi
coinvolti (cominciando a introdurre figure terze e quarte per generare),
comunque annullabile senza alcuna motivazione valida, con separazioni
automatiche, con divorzi ripetibili all’infinito in base all’esclusiva tirannia
dei desideri, perché mai lo Stato deve ancora intromettersi negli affari di
cuore? Come fa la legge a tener testa ai desideri che non concepiscono più
alcun limite? Se è l’amore canzonettistico a dettar legge, se è l’uzzolo a
pretender diritti, lo stesso Kant si ritrae, al suo laico contratto matrimoniale
viene a mancare il fondamento. Per non parlare della sofferta architettura
filosofica di Hegel: lo Stato che ordinava eticamente le passioni e si
arricchiva della prole è tramontato tra le risate liberiste della stessa parte
sinistra che pur resta statalista in materia fiscale. Viene il sospetto forte
che oggi l’unico motivo per cui ci si sposi ‘civilmente’ sia la reversibilità
della pensione e altri benefit, insomma un affare di denaro. Già, l’«argent
fait tout», si canta a teatro. Una burla sociale. Una cambiale di matrimonio
priva della soavità rossiniana. Al massimo, una tendenza alla parodia cui il
parodiato non è però tenuto affatto a prestarsi (anche perché già ci scherzò
sopra con grande spirito faceto, ed è passato un secolo, Marcel Duchamp nella Mariée
mise à nu par ses célibataires). Anzi, senza ridicolizzare ulteriormente il
matrimonio, si può risolvere la questione con una leggina che regali sesterzi a
tutti i conviventi, facendo astrazione dalle nozze, una specie di reddito
universale in morte di uno dei due che vivono sotto lo stesso tetto, ma che
premi anche chi sopravvive al fratello o alla sorella senza aver consumato
incesti, o un figlio che ha condiviso l’esistenza celibe con la madre, o un
monaco che si è rinchiuso per sempre con un altro monaco in una trappa…
Insomma, vitalizi per tutti, salvo che per i solitari ostinati, con qualche
onere in più per le pubbliche casse ma con un equivoco in meno. E una
esortazione: orsù, un po’ di coraggio, non invocate i codici per ogni aspetto
tragico o sublime della vita, non mettetevi sempre sotto la protezione dei
legulei.
Ecco allora una ennesima, modesta proposta di questo «Almanacco».
Il titolo sarebbe «Perché il matrimonio civile non s’ha più da fare». Senza
ricorrere ad altri referendum popolari o a continue leggi che abbrevino i tempi
dei divorzi o che allunghino il numero dei soggetti del matrimonio,
estendendolo magari anche ad altre specie animali, con la più scatenata
fantasia sul tema; accertato che la fede nei penati e nel vincolo è del tutto
evaporata; che le abitudini sociali, anche nei paesi più remoti della penisola,
si sono adeguate alla onnipotenza dell’amore senza altro impegno; che nessuno
in Occidente si sente nella illegalità per qualche passioncella vissuta, che
talvolta anzi figlioletti cresciuti accompagnano senza segreto e senza
imbarazzo alcuno i genitori alla festa sponsale quando questi decidono secondo
l’estro di celebrarla dopo anni di famiglia informale; che l’unica credenza è
nell’effimero sentimento; preso atto che si richiede ai pubblici poteri la
celebrazione nuziale con lo scopo precipuo di organizzare un banchetto e di
procacciarsi nell’occasione non pochi doni consistenti in liste preordinate,
oltre che per finalità pensionistiche; l’istituto del matrimonio è abolito.
(Resta naturalmente il sacramento per i cattolici che, si spera, non abbiano al
momento di consacrare la loro unione all’altare troppe riserve mentali sulla
possibilità della opzione n.2, benché prevista da alcuni teologi e vescovi
tedeschi, visto che nessuno obbliga più nessuno a sposarsi. Naturalmente,
qualcuno griderà alla discriminazione: non è giusto che il Paradiso venga
promesso solo ai credenti, lasciando fuori una parte della popolazione, quella
inflessibilmente incredula. Si spera dunque in un papa così
misericordioso da fare del premio eterno un bonus per tutti. E d’altra parte ci
sarà a questo punto chi obietta che la ‘salvezza totalitaria’ imposta ai non
credenti è assai iniqua cosa, una nuova forma sottile di proselitismo, che
perciò meglio sarebbe abolire le religioni in blocco, ecc. ecc. ).